FRANCESCO S. MOSCA

 

 

 

 

 

 

CATALOGO D’ARTE E FILOSOFIA

 

LIBRO TERZO

 

PAESAGGI DELL’IO DELL’ES NON DEL SUPER IO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTENUTI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SCARTI     

 

LEGGERE LA REALTÀ          

 

LE MODIFICAZIONI DELL’IO          

 

METAMORFOSI (Racconto)     

 

L’ESTETICA È NEL MIO CERVELLO        

 

APPENDICE I: PAESAGGI DELL’ANIMA (2000-2014)

 

APPENDICE II: RAZIONALISMO E IRRAZIONALISMO – da: Scritti sull’arte (2000)

 

IN-CATALOG(ABILE)

 

TECNICHE E DIMENSIONI    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo spazio è l’estensione della mia immaginazione.

Henri Matisse

 

 

 

 

 

Le immagini riprodotte proseguono la serie a olio dal titolo: Paludi,[1] dove “sperimentavo” costruzioni di quadri senza disegni preliminari, lasciando che il colore “cercasse da solo” le spontanee associazioni di forme e toni, in modo che le figure (alberi, rocce, piante, ecc.) si costruissero, quasi senza alcun intervento, così da ridurre al minimo l’azione della coscienza, modellata dal Super Io, ho utilizzato, cioè il metodo per l’astrattismo in punta di pennello, così da ottenere immagini significate, attraverso segni sprovvisti, in un primo momento, di significati, quel che P. Rouve denomina ottemi, basandoli sulla fonetica e sulla linguistica di Roman Jacobson, e che, inseriti in nuove strutture visive, non prestabilite, formano composizioni non mimetiche della natura, procedimento pressoché simile a quello di Turner, il quale rimuove il Significato dall’imperialismo dello schema precodificato (società borghese) e liberandolo, oltre a produrre quadri mai visti, costruisce la sua grammatica personale,[2] quella che Leonardo aveva visto, trecentocinquant’anni prima, in potenza, sulle macchie dei muri, come stimolo per la realizzazione di dipinti complessi. Se ne dovranno attendere altri centocinquanta, affinché possa acquisire il valore conoscitivo che gli compete e la dignità di lingua d’arte, universalmente condivisa, anche se molti artisti relegheranno l’astrattismo nella sotto-dimensione di arte facile, non dello stesso valore di un dipinto disegnato (pregiudizio che persevera, stranamente, in un sistema nel quale coesistono la morte della pittura e la sua massima fioritura, nonostante i dipinti di J. Pollock, vengano acquistati a cifre da capogiro).[3] Questo spiega l’inserimento (anche se a prima vista abbozzati) di personaggi nei paesaggi di Turner, giudicati dai contemporanei “mal eseguiti”, e che ai nostri giorni, e con V. Kandinskij, sono spariti del tutto, permettendo a ognuno di costruirsi i propri dipinti.[4] In Battello di negrieri (1840, Museum of Fine Arts, Boston), le catene sono sospese, galleggiano sull’acqua, è un dipinto, sul quale Turner aveva riposto molte speranze, realizzato con particolare cura e amore, confidando che il pubblico e la critica si commuovessero come lui (aveva persino pianto nell’eseguirlo), invece si rivelò un insuccesso. L’episodio è sintomatico di una condizione ancora esistente nella dimensione sociale, politica, economica e che ai nostri giorni assume un valore di manifesto premonitore dei tempi che viviamo e che verranno. Anche la mia serie denominata Paludi fa parte dei paesaggi dell’Io come tutto quel che ho prodotto, e di cui ho scritto in precedenza, soprattutto nel testo Paesaggi dell’anima (2000), dove trattavo sui primi artisti che hanno iniziato a comprendere le grandi caratteristiche del paesaggio, non più considerato come tema secondario in cui inserire i personaggi, valenze che cominceranno ad acquisire piena autonomia nel Settecento, specialmente quando le istanze confluiranno inaspettatamente in Turner, dopo un secolo di dibattiti, iniziati con l’illuminismo e proseguiti ai nostri giorni, dove non c’è più discussione.

Il termine “anima”, non compare più nei miei testi, anche se deriva da animale, si è sovracaricato di falsi significati e adesso è troppo logoro e mi dà fastidio, come religione, metafisica, spirito, essenza, poesia, cuore, cultura e tutto il repertorio, storicamente compromesso da secoli di dominio, utilizzato per legittimare la supremazia degli oligarchi (Super Io), simboleggiati da quelle catene, che continuano a galleggiare nel dipinto di Turner (mentre affondano, a milioni, i disperati che tentano di sopravvivere). Ad un tratto, i magnifici disegni faunistici, i superbi acquerelli, le grandiose tele, sparirono per far posto a “macchie da imbianchino”, lasciando i critici con “l’amaro in bocca”, presto riempita da riprovevoli giudizi nei suoi confronti. Perché? Semplice. Il suo cervello era andato parecchi anni avanti. Ma nemmeno si può affermare che la sua arte esplora un sistema incoerente, perché “stilisticamente differente”, poiché sarebbe entrato nel circuito di un qualsiasi altro sistema, suggerendo obblighi non richiesti; e neppure si vuole smettere di dipingere, o meglio, fare arte (l’alternativa è di trasformarsi in un barbone, che è pur sempre l’unione d’arte e filosofia, risalente agli antichi Cinici, ma non è nel mio stile, né in quello di Turner). Incoerenze, contraddizioni, opposizioni, contrasti, differenze, possibilità, scelte, aderenze, fedeltà, limiti, e simili distinzioni, nell’inconscio non hanno significato, se non in funzione di censure, privazioni, sofferenze, torture, morte che uccide, persino l’ultimo lembo speranza: è l’esatto contrario dell’Origine del colore in Turner, dell’Origine della vita in Courbet e dell’Origine dell’universo in me. Per noi, l’arte è vita, ed essa non ammette contraddizioni.[5] Secondo C. G. Jung, la vita cosciente costituisce solo l’uno per certo dell’attività mentale e Turner gli dà pienamente ragione, addirittura P. Rouve scrive: «È un territorio vergine, e molto c’è da attendersi dalla sua esplorazione. I risultati possono essere più sorprendenti di quelli ottenuti nelle indagini sul discorso poetico: la linea di demarcazione tra ottemi e morfemi è meno rigida di quella tra fonemi e lessemi (lexemes). Lungo questi confusi confini fioriscono ambiguità espressive sconcertanti, anche se poeticamente legittime. La logica di questa illogicità è regolata da prescrizioni di retorica visiva». [6]

Contrariamente ai tempi di J. M. W.  Turner (1775-1851), oggi un artista può essere contemporaneamente figurativo, astrattista, espressionista, surrealista, materico, geometrico, scientifico, teorico, scultore, scienziato, insegnante, poeta, letterato, saggista, narratore, filosofo, seguire mille altre discipline, arricchire continuamente il proprio Io, senza che questo crei scalpore o imbarazzo, dato che si vive in una società liquida ((Zygmunt Bauman), abitata da «corpi senza organi» (Gilles Deleuze-Félix Guattari), incapaci di qualsiasi attività critica e utopica (T. W. Adorno), perché sono riusciti sistematicamente a distruggere ogni brandello di razionalità (Geörgy Lukács), “nascondendo” dietro luci ammalianti l’eclisse della ragione più evidente (Max Horkeimer), nello stesso Pianeta, dove il paesaggio si erge magnifico, imponente, immenso, sublime, minaccioso, terribile, furioso; alza onde gigantesche, spacca continenti, ingoia città intere, devasta coste paradisiache, ma… quando la natura è serena, quando il tramonto è così rosso da far dimenticare l’esistenza degli altri colori, quando l’acqua degli oceani è così cristallina da far nuotare i pesci nell’invisibile nulla, allora la non infelicità prende il sopravvento su tutte le tristezze del mondo e quella che un tempo era indicata come estasi ascetica, sostituita dalla dialettica negativa, avvolge, per un attimo, un solo istante, lungo quanto il sogno, nella consapevolezza che le Tenebre vengono sempre troppo presto (E. Lévinas).

La distinzione di Io, Es, Super Io è di comodo, artificiale, convenzionale, come la grammatica, e schemi simili, serve a facilitare la conoscenza di tutto quello che è altro da essi, pur nello stesso tempo, essendolo:  altrimenti, non esisterebbe nulla, limiti che il poeta, il filosofo e l’artista oltrepassano con le loro opere, le quali, per realizzarsi nella verità, devono superare tutti gli orizzonti, senza mai pensare di mettere da parte la grande EstEtica, l’unico faro della società umana e naturale, soprattutto ora che è divenuta estremamente complessa, ed essa, non prevede mai il Super Io, perché non c’è, né, mai esisterà una Super Bontà. Esiste solo il Bene, tutto il resto è solo una dolorosa illusione, che resta fuori dalla ricomposizione dell’IO, sulla quale emeriti studiosi hanno scritto una vasta letteratura, i cui significati perseverano a rimanere confusi tra l’Es e le sue pulsioni. È una metafora tratta dai paesaggi, in tema con il titolo e rileva quanto essi compongono il nostro essere, fenomeno che merita attenta considerazione, spesso sottovalutata o inconscia, argomento del presente lavoro, in una società dominata dal SuperEgo. [7]

 

L’IO, quindi, è il Paesaggio, separato, non diviso dal mondo, che le ideologie negative, non dialettiche, oscurano, esso non ri-trova nessun colore ed entra nella scia della nera Ombra che tutto divora, incapace d’espellere la più piccola particella di luce, nemmeno quella infinitesimale, dalla quale è nato il nostro Universo. L’Io diviso permane buco nero, attrae solo morte, e ciò non affiora mai nei miei dipinti, tutti emessi, per celebrare la vita, la sua nascita, il suo dipanarsi, oggi frenetico e parossistico, nell’artificio del labirinto schizofrenico sociale, la cui alta percentuale d’individui, si dibatte tra le onde della sopravvivenza e l’impulso all’autodistruzione, mentre nel microcosmo s’instaura la riunificazione di tutti i più alti valori, se la condizione lo permette, quel che Lévinas denomina «Casa»: intelligenza, cultura e Bontà si aprono un lungo e tortuoso percorso, il cui premio, incalcolabile, è l’equilibrio psichico, anche nelle continue modificazioni (inevitabili nel quadro panoramico della follia sociale, quindi individuale). «L’Io è identico anche nelle sue alterazioni».[8] Il paesaggio, considerato genere minore in Occidente, rivalutato quando non c’era più arte già nell’Ottocento, da Hegel sostituita con la Filosofia e le Scienze (benché in lui, il concetto di “scienza” ha un significato che per me e per Ludovico Geymonat è di “fantastico”), il paesaggio – forse, lo si scopre sempre di più adesso che comincia a svanire. È l’IO, non distinto dalla natura, concetto che i Verdi portano avanti da anni in politica tra territori devastati da ogni sostanza tossica, ma inserito soltanto nella flora e nella fauna di un concetto rivolto al Mondo agonizzante, essendo questi, l’organismo vivente che tutto contiene, poiché senza umanità non esiste universo e di conseguenza, la sua conoscenza etico-politica, dove… e qui il pensiero si smarrisce, perché …

 

… sulla struttura portante, di un Io centrale, si dirama, come infiniti fili invisibili, una miriade multicolore di relazioni esterne, che collegano tanti piccoli io tra loro e con l’esterno. Essi arricchiscono, in ogni aspetto, contemporaneamente chimico, fisico e culturale, l’Io fondamentale degli infiniti specchi dell’universo e la sua realtà più vera e profonda, espressa da Emmanuel Lévinas in Totalità e Infinito (1961), dove contrasta il predominio dell’idea di universalità, storicamente roccaforte del potere borghese, in modo di restituire centralità all’Io: «Questo libro si presenta allora come una difesa della soggettività, ma non la coglierà al livello della sua protesta puramente egoistica contro la totalità, né nella sua angoscia di fronte alla morte, ma come fondata nell’idea dell’infinito» (p. 24). Un infinito costellato di opere meravigliose, come quelle di Marx, Turner, Lévinas, Adorno, Breton, Rilke, Magritte, Hugo, Baudelaire, Castaneda, Santana, Pink Floyd, Andrea Pazienza, Moebius, L’Eternauta, … e altri il cui elenco è troppo lungo, ma bastano questi nomi a comunicare alcune linee entro le quali si è formato il mio pensiero e la mia pittura e con le quali dialogo in questi cataloghi. Ed è straordinario il numero degli io che assorbe la mente nel materializzare più di quanto riesce a contenere, in un processo che Lévinas definisce «infinizione dell’infinito», visione laica, panteistica e atea dei meccanismi psichici totali, consci e inconsci, che egli rende attuale con estrema chiarezza e semplicità, rivelando una capacità di comunicazione di rara genialità con l’espressione che «l’infinizione dell’infinito si rivela in un secondo momento, come immiizzazione della sua idea» (p. 24), la quale si materializza nell’arte dell’artista: egli è la sua opera e contemporaneamente è altro da sé. Il Paesaggio e il suo concetto illustrano ciò: l’avvenuto oltrepassamento dell’idea dell’infinito, la relazione del Medesimo con l’Altro, dove si infinizza e si vive il rapporto con l’infinito, dove l’Altro, non è solo la Persona etica, ma il mondo, l’universo; l’infinito! Ho individuato nella curvatura simbolica dello spazio multidimensionale, il senso pieno del sistema labirintico di specchi, sui quali si riflettono gli insiemi di comprensione (luce), in cui i fotoni (lessemi), attivano l’apertura di significati (rivelazioni improvvise, ma preparate dal lungo lavoro inconscio e onirico), intercettati, durante la comprensione degli altri Io, dai neuroni-segni, elementi indispensabili alla costruzione del testo e delle immagini, a cui, gli io dei codici condivisi, attribuiscono l’autorità della verità, percepita, prima, istintivamente; col ragionamento logico-poetico-filosofico nel secondo momento, se a essi, s’aggiunge l’abilità manuale, si può chiudere il cerchio e scrivere maiuscolo la o di IO.[9]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tanta fatica per costruirmi un Io, e ora devo liberarmene.

 F. S. M. Centesimo aforisma.

 

 

 

SCARTI

 

 

 

 

 

Io è nato Altro. L’artista è la sua arte.

Pierre Rouve.

 

 

 

 

 

 

 

 

Diversi paesaggi sono dipinti su tela e legno, ma altri sono su cartone preparato ad acrilico, quello stesso materiale da imballaggio, che le industrie producono a profusione per proteggere le merci, e che, una volta assolto il compito, si butta via o si ricicla, procedimento che lo toglie dal solito circuito, cui è destinato. Nel rinascimento prima dell’opera importante dell’affresco o del dipinto, si preparavano i “cartoni” sulla cui base si realizzava l’opera. Ciò mi avvicina a Turner e me lo rende ancor più vicino, i suoi lavori, per i quali, è ora famoso, venivano puntualmente scartati e catalogati come “sputi”, “saponate”, “calce da imbianchino” e il suo IO era additato come «il cattivo prodotto di un occhio malato e di una mano impazzita»[10]. Oggi, che la sensibilità culturale si è arricchita di numerosi contributi di varie discipline, prima tra altre, della critica filosofico-estetica e di una maggiore sensibilità artistica, sappiamo che i suoi dipinti erano (sono) il prodotto dei vari Io multiformi che costituiscono l’IO, e si riesce ad apprezzare composizioni che i contemporanei di Turner giudicavano «Cacatum is not pictum» (p. 14, P. R.T.), denigrandolo addirittura come un criminale, avendo giudicato, precedentemente,  la sua opera eccelsa, quando dipingeva alla maniera di John Constable (1776-1837) e di altri cento artisti borghesi, a cui veniva superficialmente accostato. Pittoricamente Turner ha anticipato una decina di movimenti artistici: dall’impressionismo/espressionismo, all’astrattismo e surrealismo, e di conseguenza, in filosofia, dall’esistenzialismo alla nuova oggettività, per non dire delle teorie della visione con accostamenti insospettabili ad occhi non allenati,[11] fino alle più recenti proposte della scienza del caos e delle neuroestetiche. Il pittore, indicato dalla maggioranza dei suoi contemporanei, come il degno rappresentante dell’Inghilterra, ammesso a ventiquattro anni alla Royal Academy [12], l’artista “camaleonte” capace d’imitare alla perfezione «Claude, Poussin, Tiziano, Rembrandt, Cozens, Cuyp, Wilkie, Loutherbourg, Wilson, Stothard, Van der Velde, Joseph, Wright of Derby» (P. R. T, p. 16), intuisce la metamorfosi continua della personalità che l’arte rende possibile (e viceversa), modifica indifferentemente ogni prodotto, fino al totale annullamento di un singolo io, per inglobarli tutti, o, almeno, quelli resi possibile in un’unica vita. [13] «Turner sceglie il mezzo più pericoloso, all’automortificazione, il “suicidio” pittorico. Dipingere come un altro non è un atto di personalizzazione ma è una doppia spersonalizzazione: l’imitatore nega se stesso ed in più elimina l’imitato. (…). Perché Turner lo scelse? È la domanda che bisogna porsi. (…). Perché era pronto ad accantonare la sua personalità? Non si allude così ad una misteriosa svalutazione del concetto di individualità? E non è forse questo un vuoto che va colmato? E se sì, da cosa? Possono le solide strutture dell’opera d’arte rendere stabile la vacillante personalità dell’artista? Le oggettive leggi visive possono legarsi alla profonda soggettività dell’artista?» (P. R. T, pp. 17-18). Libero di espandere la sua psiche sulla tela, senza quei limiti, costituiti dalla linea rigorosa che possa frenare una coscienza in continua espansione, in disegni di borghesi aspirazioni, e per non bloccarne il travaso, in oceano di pura luce, con la quale avvolgere l’umanità, Turner dilata gli orizzonti pittorici, consapevole di non venir compreso. A causa dell’impiego di linguaggi diversi, cambia semiotica all’interno della stessa lingua, pur utilizzando gli stessi segni,[14] i quali assumono significati diversi, non avvezzi, né  consoni al gusto dei suoi contemporanei, sprovvisti della decodifica, essendo egli, avanti di qualche secolo, e quindi, esponendosi alla critica di una mancanza di stile; ma è proprio quando agisce senza curarsi dello stile e dell’opinione altrui che egli crea opere d’arte di una profondità vertiginosa, comprensibili solo da pochi, dotati di una sensibilità comune alla sua, in quell’epoca, come la nostra, per certi versi, non per nulla facile. John Ruskin, Johann Heinrich Füssli, Landseer, hanno ben visto il suo grande «potere intellettuale», oltrepassando i comuni giudizi sulle evidenti abilità manuali, già espresse nelle opere del primo periodo, forse, comprendendo anche che egli aveva fondato una grammatica visiva nuova, unica, nello stesso tempo: personale e universale e per la quale bisognava attrezzarsi con strumenti culturali che saranno codificati due secoli dopo con S. Freud (1900: L’interpretazione dei sogni) e Vasilij Kandinskiy (1910:Primo acquerello astratto), dove, il ruolo del Super Io, comincia ad essere più definito, inizialmente accolto come LA SOLUZIONE a tutti i problemi sociali, rivelatosi, invece come la CAUSA di ulteriori problemi (per es. in Italia si continua ad avere montagne di problemi a causa di SUPER EGO, specchio per le allodole di una decina di milioni di elettori), non sospettando che arte, etica, politica, economia sono una cosa sola, difficoltà che continuano a permanere e che ancora mi fa considerare, per certi aspetti, barbarica la nostra epoca. Se metodologicamente l’arte è discussa con armamentari specifici che spaziano dalla linguistica a tutte le altre scienze, astronomia compresa, essa non può venire approfondita e compresa se non si tengono bene a mente le gemelle siamesi di Storia dell’arte, Estetica, Etica, Politica, Filosofia, Psicoanalisi, discipline che, evidentemente non possono venire padroneggiate da uno solo, e che richiedono la collaborazione di vari studiosi. Ma questa collaborazione non c’è (o, almeno, io non l’ho vista, anzi, permane uno stato di tutti, contro tutti) e, quindi, il desiderio di Friedrich Nietzsche di una «gaia scienza»,[15] continua a venire evaso, soprattutto nelle politiche psicosociali, dove si attuano tutti i regressi nei Paesi culturalmente arretrati e di conseguenza, abbandonati nelle mani di ogni sorta di criminalità. Turner ha scartato la sua identità, come Nietzsche, ha disfatto la sua di emerito professore di filologia, e per quest’atto temerario, ne hanno pagato, entrambi, amare e dolorose conseguenze.

 

A volte mi sento come se mi espandessi nel paesaggio e all’interno delle cose, e vivessi in ogni albero, nello sciacquio delle onde, nelle nuvole e negli animali, che vanno e vengono, nelle cose. Non vi è nulla nella torre che non sia divenuto e cresciuto nel corso dei decenni, nulla a cui non mi senta legato. Tutto vi ha la sua storia, e la mia; vi è spazio per l’infinito sotterraneo della psiche.

Carl Gustav Jung

 

 

 

 

Io sono il mio mondo. (Il microcosmo). (5.63).

V’è dunque realmente un senso, nel quale in filosofia si può parlare non psicologicamente dell’Io. L’Io entra nella filosofia perciò che «il mondo è il mio mondo». L’Io filosofico è non l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana della quale tratta la psicologia, ma il soggetto metafisico, il limite – non una parte – del mondo. (5.641).

 

Ludwig Wittgenstein.

 

 

         

(6)                                                                                                                                                   (6a)

 

 

Geniale idea di Pierre Rouve [16] di scrivere «IO» e non «Io» solo alla fine della sua analisi su Turner, dopo aver analizzato, nel più elevato linguaggio filosofico-poetico, l’iter artistico di un autore, che ha individuato nell’Io, solo una parte (e nemmeno la più fondante) della Persona. Egli muore con un altro nome, Mr. Booth (il nome è la prima identificazione, ancor prima che si possa iniziare a comprendere), in totale spregio di tutto quel che è considerata come “identità per eccellenza”, mostrando completa  inDifferenza per quelle convenzioni sociali che attribuiscono all’individuo una sola identità, il successo, la ricchezza, cioè  “valori” che ossessionano, ancora oggi e più di prima, la maggioranza, centocinquant’anni prima di S. Freud. In cosa consiste la differenza tra «Io» e «IO», si vedrà in seguito, qui è sufficiente per delimitare un punto d’arrivo (che è anche un inizio che si attua sempre circolarmente), lungo due secoli, in pittura con Turner, deflagrato con l’avvento di Internet attraverso il collegamento planetario di artisti, la visualizzazione delle loro opere, dei loro paesaggi, e di ogni sorta di “pensata”. È opportuno un paragone. L’IO è come la luce, che a volte è visibile come fotoni (corpuscoli, I. Newton, A. Eistein), altre volte come onda, flusso modulato, “sciame” (C. Huygens, J.W. Goethe), ma questa distinzione è convenzionale, perché è lo sguardo dell’osservatore che condiziona l’esistenza delle particelle, come dimostrato dall’esperimento chiamato “della doppia fenditura”, nel quale si constatò che alcuni corpuscoli non passavano, altri transitavano tutti dalla stessa fessura, se non li si guardavano. Da qui si capì che l’infinitamente piccolo segue leggi diverse da quelle del macrocosmo, e che la teoria quantistica ha bisogno di nuovi studi per capirci qualcosa; per il momento, vale l’equazione matematica dell’indeterminazione di Werner Heisenberg, il quale, insieme a Erwin Schrödinger e a Paul Dirac, elaborò la teoria dei quanti, termine utilizzato per primo da Max Planck. Quando il famoso esperimento di Thomas Yong sembrò dare ragione a Huygens, la teoria di Newton fu messa da parte e si dovette aspettare Einstein per sapere che la luce possiede una natura polimorfica, da Sheldon Lee Glashow paragonata a un avatar, che si manifesta in molte forme diverse, determinando, che tutto è fatto di luce, noi compresi.

 

È innegabile che uno dei più grandi problemi, sia costituito dalla poca conoscenza che si possiede sull’Io. Più di un secolo è trascorso dall’Interpretazione dei sogni, ma la Persona (termine che costituisce molti Io), continua a rimanere un oscuro oggetto di desiderio, altrimenti, i rapporti sociali non sarebbero così difficili, molti orribili dolori sarebbero evitati, le masse non darebbero il voto a coloro, che poi, le “tortureranno a vita” (nei Paesi più arretrati il reato di tortura non è nemmeno preso in considerazione) e in molti stati si vivrebbe con più serenità. Ciò non avviene (i libri che hanno analizzato questa condizione umana non si riescono nemmeno a contare) e tutto lascia pensare che essa persisterà ancora a lungo. Internet ha permesso ai molti IO, in parte sconosciuti o nascosti, di emergere, di essere visti a livello mondiale, saltando i circuiti ufficiali, realizzando il sogno di arte e culture universali, infinitamente diverse, moltiplicata da specchi luminosi, collegati da una rete in espansione continua, la quale autovalorizza gli IO, consentendo di comunicare la gioia effimera del contatto con persone e artisti di ogni parte del mondo. L’osservazione fa comprendere che, se non si auto-disciplina l’IO, esso si disperde in mille progetti, difficili da portare a termine; infatti, ho il presente testo da ultimare, studio che ha incrociato l’opera di Joseph Mallord William Turner, con il quale ho molto in comune, e che solo da pochi anni posso evidenziare, soprattutto dopo aver scritto Estetica della luce (2009), fondata sullo specchio, quindi dopo aver compiuto studi teorici sul colore (dopo anni di pratica), sui riflessi, l’identità e altri temi, come la costruzione dello spazio pittorico, il sogno, la percezione, la visione, che già analizzo da diverso tempo, dove il paesaggio è sempre storia scritta dall’IO, già memoria di un futuro irraggiungibile e impossibile da circoscrivere nei contorni dei nostri tempi lacerati da facce che si nascondono nell’ombra pur restando continuamente in piena luce sotto i riflettori.

 

Sulla struttura di un Io (centrale?), si dirama, come infiniti fili invisibili, una miriade multicolore di relazioni esterne, simili a tanti Altri IO, i quali, ampliano l’IO fondamentale, specchio infinito dell’universo, materico, non mai finito, finché splenderà il nostro Sole, fonte di vita del nostro pianeta, fino al suo ultimo suo respiro. Probabilmente una parte dell’umanità continuerà l’esistenza su altri luoghi, spargendo i semi dell’IO, in altre galassie. Identità dell’Io e l’Io identico si equivalgono, sovrapponendosi, accostando (si), sfumando,  perché già universo; conseguentemente quel che viene definito coscienza, svolge il compito assegnato dall’etica, altrimenti, non avendone consapevolezza, si continua a permettere alla beata oscurità di svolgere il lavoro d’ignoranza, beffando dialettiche e contraddizioni, nella cui evoluzione, il frastuono dello schianto, inevitabile conseguenza dell’urto contro l’invisibile muro del Cosmo (il cui residuo di fondo si può ancora udire), non permetterà a nessun Io, di percepire il benché minimo suono, della propria e Altrui cultura. Infatti, come si potrebbero ascoltare le soavi melodie dei colori, o vedere le fluttuazioni della Primavera (Botticelli), ondeggiare sopra i ruscelli, felici di ricevere «chiare e fresche dolci acque»?  Eco di un’utopia che non si riesce (o non si vuole) percepire più (metafora del Rumore di Fondo dell’Universo: il Big Bang è ancora in atto e non bisognerebbe farsi distrarre troppo dall’armonia della Via Lattea, o dell’Arte). L’industria culturale persevera nella distribuzione di paillettes in faccia agli spettatori, mescolando attentati con intrattenimenti a tutte le ore, nella regolarità delle rivoluzioni-involuzioni planetarie, poiché «lo spettacolo deve continuare». Chi non è avvezzo alla dialettica surrealistica, troverà il passaggio suesposto di difficile comprensione, vediamo di chiarirlo. Il tema conduttore del Surrealismo è l’accostamento di realtà distanti: più, esse sono lontane, più il risultato sarà autentico, onirico, poetico, non compromesso dalle leggi dell’oscurantismo, le quali, come storicamente dimostrato, esistono per mantenere le masse sottomesse. Normalmente questo assunto è considerato soltanto nell’ambito politico, luogo comune sul quale si sono sbizzarriti tutti gli studiosi, nel considerare separate estetica, arte e politica, ma perché, mi chiedo, lo si deve confinare nel solo ambito sociale amministrativo se esso regola, direttamente o in senso obliquo, l’universo letterario-artistico? Il continuare a restare nei recinti della logica borghese non sostiene e mantiene lo stato di degrado che avvolge le nostre società di sopravvivenza? Esso non favorisce il non dialogo tra le varie discipline che formano la Persona e tutti i problemi che riguardano gli io isolati da se stessi e dagli Altri? Cosa c’è di più distante dell’estetica dalla pittura, della filosofia dalla poesia? Eppure, se si accostano queste “immagini” lontanissime tra loro, non si otterrà quel procedimento surrealista così caro a Breton? Questo pensiero m’è venuto, dopo che ho ri-letto I campi magnetici, il primo libro autenticamente surrealistico, scritto da André Breton e Philippes Soupault, nel 1919, cinque anni prima della nascita del Surrealismo, nel cui Manifesto è possibile leggere:

 

Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere sia verbalmente sia per iscritto, sia in qualunque modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale.[17] 

 

Stanco dei saggi, senza sapere perché, ho tirato fuori dallo scaffale il libro e ho pensato. Così come Les Champs Magnétiques rimandano alla luce, anticipando il surrealismo e l’esplosione delle avanguardie, chiudendosi con l’epigrafe alla memoria di Jacques Vaché (Lorient, 7. 09. 1895, Nantes, 6. 01. 1919), suicidatosi a ventiquattro anni, così, Turner si è “suicidato” artisticamente abbandonando le tecniche pittoriche accademiche, procedimenti che ha “bruciato” insieme ai palazzi del Potere, nelle numerose versioni dei dipinti e acquerelli dell’Incendio della Camera dei Comuni (1835), legna divenuta carbone, la fine di tutto, come scritto a conclusione dei Campi magnetici, coincidenze eclatanti, per chi non crede alle coincidenze. Tutto ciò, mi fa intuire che Turner abbia visto i duecento anni di progresso e disfacimento dell’Io, prima che si verificassero ed esplodessero nei labirinti di contraddizioni che ci avviluppano caoticamente ogni giorno.

 

 

Il primo Johann Gottlieb Fichte (Rammenau 1762-Berlino 1814), ha individuato proposizioni affascinanti che compongono la sfera dell’Io, poi si è perso nella metafisica e nella religione. Ciò non toglie nessun valore alle sue geniali scoperte. «L’Io pone se stesso»; «Osserva te stesso, distogli lo sguardo da tutto ciò che ti circonda e rivolgilo nel tuo intimo… non è di qualcosa che sia fuori di te che si tratta, ma unicamente di te stesso»; «La coscienza stessa è un prodotto del primo originario atto dell’Io, del porsi dell’Io da se stesso»; «L’Io pone nell’Io il non-Io»; «L’Io oppone, nell’Io, al non-Io divisibile un Io divisibile »; «L’unica salda base di tutta la mia conoscenza è il mio dovere».[18] L’io penso cartesiano assume, qui, l’Io categorico di Kant, diventa un imperativo, senza il quale non può separarsi dall’animalità, se non prende coscienza del dovere come appartenente all’umanità, definizione rivoluzionaria, perché per Kant, tutta la scienza è vana se non è etica. Il progresso scientifico della sua epoca era sbalorditivo e continuerà inarrestabile, svelando nuove dimensioni dove l’Io modella incessantemente i propri, e altrui confini, limiti che s’assottigliano fino alla loro sparizione e con essi, anche la soggettività intima della propria Dimora, poiché attraverso il collegamento globale d’Internet, ognuno vive in una Casa di Vetro e moltiplica all’infinito l’Io, che assume, in astratto, la forma del globo terrestre. Esso è l’estensione delle opere, oggetto di riflessione in cui incontra infiniti Io che si dispiegano in ogni direzione, come reticoli di sinapsi che si prolungano oltre il tempo e lo spazio, permettendo d’accostare pittura, estetica, filosofia, poesia e qualsiasi prodotto della psiche, lontanissimi tra loro per esecuzione, contenuto e finalità, nel procedimento teorizzato da A. Breton nel Manifesto del Surrealismo (1924) e che ha plasmato la mia vita e forse quella di parecchi Altri. La conoscenza della bellezza della luce diventa anche il manuale d’iniziazione all’interpretazione dell’arte, infatti, affinché luce ed elettricità si congiungessero, sono dovuti trascorrere quasi duemila anni. Fu James Clerk Maxwell [19] a comprendere per primo che esse sono lo stesso, così com’è stato Freud a capire che Io, Super Io ed Es costituiscono le tre istanze sulle quali si forma la persona, divenendo tutt’uno,  presenti in questo libro in colori caleidoscopici, come dovrebbe essere la vera vita non mortificata dalle miserie sociali, le quali, molto spesso, prendono il posto del quadro e costituiscono l’attenzione maggiore, come se la cornice fosse più importante del dipinto che nel frattempo è sparito, volatilizzatosi nel nulla delle chiacchere senza fine, perché il vero Io è sconosciuto: tutti noi co-abitiamo con un io che non conosciamo e non sappiamo conoscere. Ma chi si ritrova in questi tristi paesaggi? Tutti quelli che non sanno leggere la realtà, coloro che non vedono nei volti, i paesaggi più belli, profondi e veri: essi delimitano continuamente lo spazio, lo scolpiscono con i loro incubi, avvolgono l’Ego nel mantello invisibile del Nulla e innalzano simulacri giganteschi della propria immagine. L’Io senza «l’Altro» e la sua umanità, non sarà mai completo, è un io che ne sancisce la sua fine, etico-morale, se non immediatamente fisica, ragiona in termini esageratamente, egoistico-personali, auto evidenziando la pochezza dei suoi istinti, confinati nel grigio del suo basso orizzonte, in un terribile processo degradante verso il quale i potenti indirizzano la massa, gli stessi contro cui Turner ha gettato via la sua identità di successo per assumerne una, nella quale: io-non io-nessun io-tutti gli io agiscono contemporaneamente in passaggi progressivi attraverso i supporti delle tele, dove sperimentava tutti gli stili, per giungere alla pura luce, dove tutto è indistinto, simile all’esplosione originaria dell’universo, inizio di tutte le nascite: ed ecco superate le divisioni!

Se per Lévinas «la filosofia è un’egologia», l’arte lo è maggiormente e con più visibilità, perché l’artista dipinge il suo Io in ogni minuscola superficie, annulla le differenze, azzera le distanze, dona il suo Io e allo stesso tempo, assume tutti gli io, tutti gli enti: la sua soggettività diviene universale, afferma, nella trascendenza, la propria dialettica, perché la forma è il contenuto, nessun dualismo è permesso, fa della sua mano, la mente con la quale dipinge.

 

L’Io è identico anche nelle sue alterazioni. Se le rappresenta e le pensa. L’identità universale nella quale l’eterogeneo può essere abbracciato ha l’ossatura di un soggetto della prima persona. Pensiero universale è un «io penso».[20]

 

Perché paesaggi dell’IO e dell’ES? e il Super Io? Non sono entità, o istanze che concernono la psiche e quindi, la sola interiorità? Il corpo, non è sempre stato considerato “materia” una “macchina” (Cartesio), sia pure, la più perfetta e meravigliosa? e il cervello, non è stato definito l’organo più potente dell’universo? La storia della filosofia, non ha fin dagli albori, tentato di risolvere il dualismo mente-corpo, empirismo-idealismo, e nella dimensione politica, l’opposizione comunismo-capitalismo? Ma siamo sicuri che si tratti di opposti? In base ai miei studi, le contraddizioni sono apparenti, persistono nel tempo contingente, il quale, viene assorbito nel fluire interno dell’evoluzione; un interiore che si manifesta nel cambiamento dialettico, con “ nuovi prodotti” sempre più tecnologici, a disposizione dei più fortunati, che ne usufruiscono con una qualità della vita che non ha eguali, se rapportati al passato. Queste considerazioni hanno una qualche relazione, con le mie illustrazioni? L’umanità ha ancora bisogno di vedere paesaggi, dopo tutta l’arte prodotta? La suddetta proposizione, il cui castrante effetto, mi ha dato (e mi dà) da pensare, la rimuovo attraverso altre riflessioni. Il Mondo ha ancora bisogno di assistere agli spettacoli? Quante materie prime, quanta energia, quanto petrolio, quanto cibo, e, soprattutto, quanto denaro viene utilizzato per realizzali? Quanto Pianeta si consuma per questi prodotti? Dopo una partita di calcio o una gara di Formula Uno, si diventa migliori? È importante divenirlo? Io stesso, utilizzando gli strumenti di comunicazione di massa, non rendo la Terra, più inquinata? Dunque, è con l’astensione, con la totale ascesi e la rinuncia al consumo, che si mantiene il mondo meno inquinato, per cui, ogni considerazione sull’utilità di godere delle bellezze della natura e dell’arte, è già viziata dall’egoismo. Ma si erge imperioso il Desiderio di comunicare con le idee che hanno formato i miei io, riversati sui fogli e sulle tele e le cui fantasie proseguono le mie interpretazioni, dove si dispiega la totalità del mio ego solitario e contemporaneamente forma il mio linguaggio, unico elemento di una differenziazione, nella nostra società massificata. Così l’Io diviene IO, dove la lettera O, maiuscola, collega la mia cultura a quella di tutti gli altri, in un cerchio, nel cui perimetro si percorrono sentieri sempre diversi, senza inizio, né fine.

 

 

 

 

Mai pensare: «Impossibile». Con la fisica quantistica e i suoi esperimenti, si è dimostrato che più particelle possono essere in due posti diversi e compiere la stessa realtà. Il micro cosmo, al momento, contraddice il macro cosmo, le leggi sembrano differenti. Scrive L. Wittgenstein: «La morte non è evento della vita. La morte non si vive. Se, per eternità, s’intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente. La nostra vita è così senza fine, come il nostro campo visivo è senza limiti. (6.4211). [21] Non il passato, né il futuro, quindi, ma solo il presente, l’attimo, il secondo, il minuto, l’ora, un giorno, né ieri, e nemmeno domani, soltanto «l’adesso», questo momento in cui scrivo pensieri su opere del passato, che in questo modo, non è più solo passato, ed è anche futuro (considerando che è il testo è per un libro futuro, il quale, può, o meno, giungere a termine), e non esiste nessuna garanzia che possa trasformarsi in evento. La critica formula dei giudizi che sono diversi dai miei e dagli altri Io (nel tempo e nello spazio differenti, anche se per Julian Barbour, il tempo di fatto, non esiste; in che modo lo spazio possa esistere senza tempo, è, per me, superiore alle mie capacità), come può non esserci nessuna critica se nessuna persona li leggerà, e tutto ciò non riguarderà minimamente il seguente prodotto in elaborazione: il fatto sarà, o non sarà compiuto. Ciò è irrilevante nella misura in cui posso continuare a sopravvivere, e con me la mia famiglia e i sei gatti (sono abituato al sovraccarico di lavoro, è sempre stato il mio destino!). Ed è solo grazie alla mia cultura che sono al riparo da invidie, gelosie, rimpianti e simili sentimenti, quando Artisti sono consumati da essi, o, quanto meno avrebbero voluto essere altro (p. es. uno scrittore voler dipingere e viceversa). IO sono quel che sono, mistico e materialista, metafisico, trascendentale, perennemente utopico, un sognatore che ha iniziato a sognare ancor prima di nascere, quando è nato il Mondo e, prima ancora, nel tempo in cui la capocchia di energia è deflagrata nel parto cosmico. Ecco perché, anche in questo catalogo, ho inserito alcuni dipinti che ho intitolato “L’origine dell’universo”. Studio per conoscere e quel che apprendo, lo riverso sulle opere, sulla personalità, sui rapporti con gli Altri, apparentemente senza un sistema unitario, specifico (cosa c’entra l’Etica con l’Estetica?), estremamente rigoroso al tema. Sarà per indole contraddittoria per quando mi scrivevano sul compito: «Fuori tema», oppure perché non riesco a stabilire rigidi confini tra quel che Altri considerano «non in linea con la tematica», o per incompetenza o chissà che altro; ma confesso di trovarmi in difficoltà, in particolare ogni volta che inizio a scrivere sulle qualità “artistiche” dei miei dipinti, per nulla considerati dai critici “importanti” (cioè, quelli che possono cambiare la vita). Uno di essi ( un autorevole artista) mi ha detto che i miei dipinti «mancano di grammatica», io mi sono ricordato di una frase di Jaques Derrida, citata in Filmcritica (Anno XXIV – N. 281, gennaio 1978), [22] vale a dire che il sognatore inventa la propria grammatica, ma evidentemente i miei sogni non hanno incontrato i suoi, e non per questo ho smesso di dipingere e continuo ad aspettare davanti al portone della Legge, simile al personaggio di Kafka, sapendo che, forse, si aprirà quando non vi potrò più entrare. Nel mentre, m’immergo ancor più in profondità negli Io, non mi curo del pensiero di chi ha decretato la “morte dell’arte e della pittura” (e ce ne sono molti: Hegel, Duchamp, Danto, …) e, di conseguenza, la mia, senza nemmeno essere nata (non riconosciuta a livello istituzionale dalle persone che dipendono dalle industrie culturali), gli aborti e i mostri che ho descritto in Paludi, lasciata incompiuta, dopo una cinquantina  di tavole, senza nessuna paura di non poter terminare l’opera. Se i filosofi, i critici, gli storici dell’arte mostrano pregiudizi (poi, bisognerebbe sapere cosa si cela dietro essi), come Arthur C. Danto, i cancelli resteranno chiusi, permettendo alla devastazione e all’autodistruzione di completare l’Opera, riportando la storia indietro, ai “tempi bui” dell’ignoranza, attaccando l’origine stessa dell’arte, il cui primo significato etimologico è: Fare, quindi, conoscenza, perché chi agisce senza sapere è esattamente un ignorante, o uno sciocco. Se poi, queste informazioni sono in grado di cambiare la società (come pensa più di qualcuno) è un discorso che riguarda soprattutto la politica, e quindi il sistema scolastico, l’educazione, gli edifici, e tutti i collegamenti con le strutture sociali.

Leggere che l’arte non è conoscenza, è veramente insopportabile, soprattutto se a scriverlo sono filosofi. In questo caso, viene da rispondere con le parole che T. W. Adorno rivolge a Kant ed Hegel, e cioè, che di arte non capivano granché, perché incappano inevitabilmente in giudizi troppo distanti dalla verità artistica, fondata sulla pratica e arricchita dalla teoria, e, si sa, quando s’invertono i tempi, i risultati si confondono, diventano sterilmente ambigui, cosparsi di malintesi, menzogne, fraintendimenti pericolosi, la cui energia, specie se profusa da autorevoli cervelli, può protrarsi per anni, secoli addirittura, evento storico che si è verificato, con impensabile puntualità fino ai nostri giorni e i cui effetti sono a conoscenza di tutti. A nulla serve coniare nuovi sostantivi, parole che, basate sul fraintendimento (o, sul nulla) avviano dibattiti improduttivi, il cui unico scopo è quello di far perdere tempo, come il termine «disturbazione» o «destituzione» da Danto usati per indicare il processo degradante, che certi «prodotti», considerati da alcuni «artisti», «opere d’arte», hanno contribuito allo sbandamento dei valori estetici, e i cui capostipite possiamo indicare in M. Duchamp, Kurt Schwitters, Francis Picabia, con le loro provocazioni, sintetizzate nello slogan: «Merde à la Beauté»; réclame raccolta da Piero Manzoni e conservata nei suoi barattoli, venduti anche a diecimila euro. Se queste operazioni avevano un significato nel periodo storico in cui sono state espresse, riproporle, adesso, sia pure infilandosi in un sacco sull’autostrada, denotano soltanto il desiderio d’escogitare «la trovata» più eclatante, quasi che la pratica dell’arte fosse una competizione, attuando la mentalità industriale che premia chi riesce a impressionare di più, non importa con quali mezzi.

 

È un continuo parlare su, e di metalinguaggio [23] con fantasmi invisibili (e per questo, visibili: non mostrarsi, non dire, non esserci è uno dei modi per apparire), che si possono intravvedere tra gli spazi vuoti delle figure dipinte, le uniche in grado di decifrare l’occulto di realtà che ci sovrasta. Come fa l’Io a leggere il Reale? Il problema che ha occupato per anni la mente di J. Derrida e a cui ha tentato di rispondere con la decostruzione è stato risolto? Il suo smontaggio l’ha reso più comunicabile? Forse a coloro, che hanno studiato greco, latino, e tutte le altre lingue più importanti, insieme alla bioingegneria, alla genetica, unite alla fisica, chimica, psicologia, psicoanalisi e mille altre discipline si sono aperte le porte della verità; oppure, il passato è rimasto una terra desolata?

 

 

 

LEGGERE LA REALTÀ

 

 

 

 

 

 

 

Il passato è sempre una terra desolata, anche se si è vissuti in paradiso, perché, se si continua a rimanere “prigionieri dei ricordi” (ossessione), non si può vedere il presente in tutta la sua profondità (che è, di per sé, infinita), e quindi si corre, inevitabilmente, il rischio di “perdere” momenti ricchi di contenuti. Si può mancare di “prontezza” e lasciarsi sfuggire occasioni importanti, che potrebbero cambiare l’intera vita, oppure, non riuscire a interpretare la “realtà” nel modo più corretto possibile e aderente ai valori del Bene, gli unici, attraverso i quali, ci si può proteggere dagli incubi, qualunque essi siano: diurni e onirici. Eppure, è opinione comune, credere che sia la conoscenza del passato, a farci acquisire quell’esperienza, che ci permette di giudicare “obbiettivamente”, in modo da ottenere un’interpretazione più vicina alla verità, quell’autenticità, che sola, permette di costruire un futuro solido, divenuto, per i più, chimerico. Ma chi sono gli uomini che lavorano per costruire un simile passato? Chi mai può continuare a vivere, distruggendo sistematicamente e a vari livelli, l’arte, le città, le buone leggi, le belle teorie, e, non vorrei, scriverlo, persino la poesia, riducendo la Totalità a una compravendita televisiva? Il passato è ancora cosparso di bombe che deflagrano silenziosamente, quasi ogni giorno. Si studia al microscopico l’osso preistorico più infinitesimale e non si riesce a conoscere i nomi degli assassini che hanno organizzato e portato a termine stragi innominabili, simili alle operazioni che si compivano nella seconda guerra mondiale; si lanciano sonde oltre l’universo visibile e non si riesce a migliorare di un centimetro il nostro Pianeta, né cambiare un secondo della nostra vita, un misero secondo, sufficiente a salvare la vita di un suicida. Se oggi, gran parte del nostro presente è composto da approssimazioni, faciloneria, ignoranza, volgarità, corruzione, violenza gratuita e mille altri mali, da dove provengono? Quale mente diabolica è riuscita a progettare un simile presente?  Come hanno fatto i peggiori criminali, a darsi appuntamento, in ogni epoca e a non mancare nessuno incontro? Tutto il male che si poteva compiere, è stato fatto, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, quello ancora più grande è stato immaginato dalla fantascienza, il disastro totale lo realizzerà l’universo tra qualche anno, perché, ed è la logica a suggerirlo, nel frattempo non si possono vivere giorni più lieti?

 

Si può riuscire a fare del mondo, non una terra desolata, ma un luogo dove costruire un futuro, degno di questo nome, soltanto conoscendo se stessi, ma si preferisce infilare la testa in un sacco e attraversare l’autostrada; forse, sperando che qualche auto, non spiaccichi sull’asfalto il nostro Io. Oppure sì? È un po’, la situazione che è stata creata, da coloro che hanno progettato questo sistema sociale (ricordiamoci che sono fior fiori di geni, i quali non ragionano per obiettivi a breve e medio termine, bensì per intere ere, glaciali; appunto! nulla deve cambiare, in modo d’assicurare un futuro alle proprie discendenze fino alla fine del mondo) e che Perniola rileva subito nella sua premessa: «Da un lato nulla è più ingannevole, fragile e tendenzioso quanto la cassa di risonanza dei media, dall’altro proprio alcuni aspetti della vita culturale attuale (la sovrabbondanza, della produzione libraria, la molteplicità delle lingue e dei contesti, la disattenzione generale) rendono ignoti anche agli specialisti tante opere e autori meritevoli di essere letti e discussi». [24] Società liquida (Zygmunt Bauman) e morti liquidi dell’Attesa, dello Scarto, senza nemmeno sapere di valere qualcosa, per cui, è nell’Io stesso, che l’Autore si deve “convincere” della propria validità, esperienza che del resto, hanno già fatto tanti, su cui, la Storia dell’Arte ha scritto pagine di grande bellezza e commozione, le quali, ancora oggi splendono sulle spoglie lapidi dei fratelli Van Gogh. Chiunque decida di scegliersi questo lavoro, lo deve mettere in conto e non piangersi addosso, né smettere di cercare in se stessi la linfa necessaria a far sbocciare i germogli, ché la primavera viene per tutti, ma, credetemi!, le ceneri di un cadavere, non li hanno mai visti, né saprebbero che farsene. Ed è solo grazie alla nutrimento degli Altri IO, che ci si può autoalimentare, naturalmente, se si potranno comprare i loro, fortunati, libri. Ma ora c’è Internet! Che scorpacciata di tutto: musica, pittura, libri… 

 

Nello stesso libro di Derrida, ho letto un’osservazione, quasi espressa incidentalmente e in nota, a proposito del lavoro onirico di Freud: «…Sul Denkaufschub, sul pensiero come effetto ritardato, aggiornamento, proroga, tregua, perifrasi, differenza opposta a, o meglio differente dal polo fittizio, teorico, e già sempre trasgredito del “processo primario”, cfr. tutto il capitolo VII (V) della Interpretazione dei sogni. Il concetto di “procedimento deviato” o ” via indiretta” (Umweg) in esso è centrale. L’”identità di pensiero”, tutta intessuta di ricordo, è l’obiettivo già da sempre sostituito ad una “identità di percezione”, obiettivo del “processo primario” e das ganze Denken ist nur ein Umweg… (“l’intero atto del pensare è soltanto una via indiretta”: cfr. GW, II/III, p. 607 [L’interpretazione dei sogni cit., p. 548]. Cfr. anche “Umwege zum Tode”, in Al di là del principio del piacere. Il “compromesso”, nel senso di Freud, è sempre differenza. Ora, non c’è nulla prima del compromesso». [25]

 

I due dipinti in questa pagina sono ri-composti in una unità che nella realtà non esiste, i quadretti ora appartengono ad altri Io, essi continuano a “vivere” separatamente in abitazioni differenti; il mio IO, producendoli in tempi diversi, continua idealmente la sua unità con questo lavoro, esso raccoglie gli innumerevoli Io e li archivia, divertendosi a ri-unire quello che nel passato era diviso. Come si può realizzare in uno stesso dipinto, in cui ho illustrato molti temi e soggetti che occupano la mia attuale ricerca, dove ri-compongo un Io Ideale nell’Ideal-dell’IO, proveniente direttamente dall’inconscio più antico e profondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE MODIFICAZIONI DELL’IO

 

 

 

Cerco di fare arte con la scrittura (che presunzione!),

dipingere è diventato maledettamente complicato.

 E…poi, quale “grammatica”, dovrei usare?

Qualcuno si è dimenticato di dirmelo.

Nel mentre, le uso tutte.

 

 

 

«A volte mi sento come se mi espandessi nel paesaggio e all’interno delle cose, e vivessi in ogni albero, nello sciacquio delle onde, nelle nuvole e negli animali, che vanno e vengono, nelle cose. Non vi è nulla nella torre che non sia divenuto e cresciuto nel corso dei decenni, nulla a cui non mi senta legato. Tutto vi ha la sua storia, e la mia; vi è spazio per l’infinito sotterraneo della psiche».[26]

 

La durezza del mondo mi è inconcepibile. L’arte permette - di tanto in tanto – di possedere una delicata sensibilità, sufficiente a farmi sprofondare nelle cose, per meglio immergermi in me stesso e ritrovare l’autenticità del mio essere, in corrispondenza armonica con le bellezze del mondo, al punto che la parvenza cessa di essere soltanto parvenza, e diventa una via, un passaggio e una porta per accedere nell’ al di là della materia, in modo da ritrovare finalmente l’espressione della mia più alta “spiritualità” profana. È un mondo in cui si possono vivere soltanto sensazioni appena percettibili, che a stento hanno qualcosa in comune con la sostanza, tanto da non riuscire a capire come dalla solidità della carne, possano scaturire sensazioni così intense e delicate. Riuscire a penetrare in questo mondo, vedere i pensieri che gli appartengono come oggetti di una riflessione capace di trasfigurarmi non è facile e come ciò possa accadere è per me un mistero (Aforisma N. 59, 2009). Questo sentire è, ormai, un bel ricordo, una terra desolata, in cui nuovi germi attecchiscono continuamente e germogliano in un groviglio inestricabile, che mi allontana, sempre più, dalla pittura, ma non dallo scrivere, una forma d’espressione, di cui l’altro Io, non prova nessuna concorrenza, e lo asseconda pazientemente, in attesa di qualcosa, senza aspettare nulla, sempre lieto d’incontrare pensieri, sentimenti, sensazioni provate da altri Io, con i quali dialoga nella lingua silenziosa del pensiero.

 Fondamentale è la condizione psicologica dell’istante vissuto pienamente, quello che l’opera d’arte più felice riesce a materializzare, la quale può assumere tutte le forme, anche quella di un sorriso o del pensiero più elevato, la cui scia o traccia, attraversa i secoli per giungere fino alle coscienze viventi ed è ri-trasmessa alle generazioni future, oltre il transitorio, oltre l’effimero che tutto distrugge, quando nell’ebrezza ogni persona è artista e nel sogno genera capolavori: inebriati di luce, abbandoniamo oblio e miseria e nell’istante che è appena passato, viviamo quel che filosofi e artisti chiamano la vera vita!

 

… dunque, ho scritto “il passato è sempre una terra desolata, anche se si è vissuti in paradiso” e non avevo la benché minima idea di cosa potesse significare, né il motivo del perché l’avessi scritto. È emersa alla mente “da sola”, dandomi da pensare, poiché considero fondamentale il passato, la storia, i ricordi, l’esperienza per la formazione degli Io e quindi la consideravo una contraddizione, a cui ho risposto con le argomentazioni suesposte. Poi, durante la rilettura del libro di C. G. Jung, mi sono “imbattuto” nel seguente brano.

 

Le nostre anime, come i nostri corpi, sono composte di elementi individuali che erano già presenti nella catena dei nostri antenati. La «novità» della psiche individuale è una combinazione variata all’infinito di componenti antichissimi. Il corpo e l’anima hanno perciò un carattere eminentemente storico e non si trovano a loro agio in ciò che è appena sorto, vale a dire, i tratti ancestrali si trovano solo in parte a casa loro. Siamo ben lungi dall’aver lasciato dietro di noi il medioevo, l’antichità classica e l’età primitiva, così come pretenderebbe la nostra psiche. Siamo invece precipitati nella fiumana di un progresso che ci proietta verso il futuro con una violenza sempre maggiore quanto più ci strappa dalle nostre radici. Ma se si apre una breccia nel passato esso per lo più crolla, e non c’è più nulla che trattenga. Ma è proprio la perdita di questo legame, la mancanza di ogni radice, che genera tale «disagio della civiltà» e tale fretta che si finisce per vivere più nel futuro e nelle sue chimeriche promesse di un un’età dell’oro che nel presente, a cui del resto la nostra intima evoluzione storica non è neppure arrivata. Ci precipitiamo sfrenatamente verso il nuovo, spinti da un crescente senso di insufficienza, di insoddisfazione, di irrequietezza. Non viviamo più di ciò che possediamo, ma di promesse, non viviamo più nella luce del presente, ma nell’oscurità del futuro, in cui attendiamo la vera aurora. Ci rifiutiamo di riconoscere che il meglio si può ottenere solo a prezzo del peggio. La speranza di una libertà più grande è distrutta dalla crescente schiavitù allo stato, per non parlare degli spaventosi pericoli ai quali ci espongono le più brillanti scoperte della scienza. Quanto meno capiamo che cosa cercavano i nostri padri e i nostri antenati, tanto meno capiamo noi stessi, e ci adoperiamo con tutte le nostre forze per privare sempre più l’individuo delle sue radici e dei suoi istinti, così che diventa una particella della massa, e segue solo ciò che Nietzsche chiama la «spirito di gravità. I miglioramenti che si realizzano col progresso, e cioè con i nuovi metodi o dispositivi, hanno una forza di persuasione immediata, ma col tempo si rivelano di dubbio esito e in ogni caso sono pagati a caro prezzo. In nessun modo contribuiscono ad accrescere l’appagamento, la contentezza, o la felicità dell’umanità nel suo insieme. Per lo più sono addolcimenti fallaci dell’esistenza, come le comunicazioni più veloci che accelerano il ritmo della vita e ci lasciano con meno tempo a disposizione di quanto non ne avessimo prima. Omnis festinatio ex parte diaboli est: tutta la fretta viene dal diavolo, come erano soliti dire i vecchi maestri. Le riforme che si realizzano col ritorno al passato, invece, sono di regola meno costose e inoltre più durature, perché esse ci riportano alle più semplici e provate vie del passato, e richiedono il più parsimonioso uso di giornali, radio e televisione, e di tutte le novità che si pensa ci facciano guadagnar tempo. [27]

 

L'attività, che si può far risalire al Romanticismo, è all'insegna del frammento, come opera fine a stessa, riflesso dell'interesse senza interesse, antitetico al sistema capitalistico, senza che quest'enormità scandalizzi nessuno, allorché si considera che l'industria culturale può fare a meno di chiunque, come qualsiasi altra industria, completamente automatizzata: Moltiplicando la violenza attraverso la mediazione del mercato, l'economia borghese ha moltiplicato anche i propri beni e le proprie forze al punto che non c'è più bisogno, per amministrarle, non solo dei re, ma neppure dei borghesi: semplicemente di tutti. Essi apprendono dal potere delle cose, a fare a meno del potere . » [28]

 

 

 

 

 

Il mio IO, modificato nel corso degli anni, che mi separano dalla prima lettura, me l’ha fatto re-incontrare, dopo che l’inconscio aveva fatto emergere l’aforisma: “il passato è sempre una terra desolata, anche se si è vissuti in paradiso”, avendone, inizialmente, un’interpretazione confusa, che le parole di Jung, hanno dissipato con chiarezza ed eleganza letteraria più che notevoli: uno splendore alchemico-magico.[29] Quindi, l’Io è un mosaico i cui tasselli non vanno mai a posto, non completano mai il quadro, e deve accontentarsi dei frammenti che riesce a incasellare dentro il proprio IO, il quale, contemporaneamente e sempre, tra gli iato, gli spazi vuoti, lasciati dai fantasmi, cresce la pianta dell’Ombra Nera, la MalaErba che inquina la mente, la distoglie da se stessa e la conduce alla rovina; la sua e quella di coloro che gli sono vicini, perché, se Jung rivaluta intelligentemente l’Ombra (che deve sempre essere conosciuta benissimo per non divenirne preda), la conoscenza della Luce continua a rimanere latente, nascosta alla maggioranza, per evidenti finalità politiche, così che il suo opposto, perfettamente simmetrico, possa continuare a svolgere il lavoro, al riparo da qualsiasi rivoluzione (come testimonia la Storia) e l’individuo può continuare a naufragare nell’oceano della “beata ignoranza”, in quel mare di confusione, nel quale, nemmeno il dubbio, può divenire unica certezza, come accade in Italia, un’Italia già scheletrica, sodomizzata da mille falli di plastica e d’idiozia, nell’incosciente allegria di baccanali laziali, dove già è anticipata la memoria apocalittica del futuro.

 

Cerchiamo di chiarire questo fosco paesaggio, sul quale, R. M. Rilke, nei primi anni venti, aveva smitizzato il concetto affettivo con l’espressione di non voler essere amato, nei famosi Quaderni di Malte Laurids Brigge, prosa poetica e autobiografica, letto a vent’anni, comprato per 1800 lire nella poetica traduzione di Vincenzo Errante, in edizione cartonata Utet, libro di formazione, che ho ritrovato ampiamente citato in un altro meraviglioso testo di S. Lo Bue, Il Fiore Azzurro, nel quale ho letto questa citazione:

         

Poi che tutto è portare a termine e generare. Lasciar compiersi ogni impressione e ogni germe di un sentimento dentro di sé, nel buio, nell’indicibile, nell’inconscio irraggiungibile alla propria ragione, e attendere con profonda umiltà e pazienza l’ora del parto di una nuova chiarezza: questo solo si chiama vivere d’artista: nel comprendere come nel creare. Qui non si misura il tempo, qui non vale alcun termine e dieci anni son nulla. Essere artisti vuol dire: non calcolare e contare; maturare come l’albero, che non incalza i suoi succhi e sta sereno nelle tempeste di primavera senza apprensione che l’estate non possa venire. Ché l’estate viene. Ma viene solo ai pazienti, che attendono e stanno come se l’eternità giacesse avanti a loro, tanto sono tranquilli e vasti e sgombri d’ansia. Io imparo ogni giorno, l’imparo tra dolori, cui sono riconoscente: pazienza è tutto! [30]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’arte è anche conoscenza indiretta. Se voglio sapere come funziona e che cos’è la luce che rende visibili i colori, mi rivolgo alla fisica, alla chimica; se desidero apprendere i meccanismi della percezione, consulto la psicologia; se ho interesse a scoprire quali sono le conseguenze di certe azioni che le immagini producono su gruppi, più o meno, estesi, eterogeni, di età differente, se visitano musei, quanto tempo dedicano alla visione dei dipinti, ecc., la sociologia mi dà le risposte e a ben riflettere, l’arte si trova sempre al centro delle attività, sia umane che animali, dato che è il pavone che fa la ruota più bella, possiede le penne più brillanti, e si assicura il successo sessuale, anche col rischio di venire catturato, in spregio della difesa offerta dal mimetismo (questo e altri fenomeni del regno animale, dovrebbe far riflettere molto). La super valutazione attribuita alla filosofia, come sola disciplina della conoscenza (artistica, in questo caso), trova una giustificazione se essa include tutte le altre, per cui si può verificare il paradosso del pittore che per amore della conoscenza non trova più il tempo per la pittura:

         

          «Ciò che nei nostri progetti di vita trascuriamo più spesso, quasi di necessità, sono le trasformazioni che il tempo produce in noi stessi; ne deriva che molto spesso miriamo a cose che, quando alla fine le raggiungiamo, non ci si adattano più, oppure passiamo gli anni con i lavori preparatori a un’opera, i quali, senza che ce ne accorgiamo, ci sottraggono nel contempo le forze per l’opera in quanto tale». [31]

 

Nel panorama dell’estetica internazionale offerto da Perniola, sono presenti domande che rendono la comprensione dell’arte particolarmente penetrante ai non specialisti, proprio perché il linguaggio utilizzato è teso ad attrarre il maggior numero di persone, anche chi non ha particolari interessi artistici, e non è vicino a problemi che solo apparentemente non riguardano il mondo dell’arte (uno, dei più duri pregiudizi), metodo particolarmente efficace, poiché suddivide la narrazione per temi, tutti di grandissima attualità, sviluppando ogni parte con estrema chiarezza di linguaggio, al punto da far apparire semplice i concetti più difficili, senza quelle complicazioni intellettive che richiedono conoscenze e linguaggi sempre più specialistici, come quello di Derrida o di Deleuze e Guattari, per i quali bisogna attrezzarsi di enormi apparati culturali, in grado di decifrare i loro codici semantici, correndo il rischio di recludere ancor di più l’ermeneutica, nell’arduo recinto, quasi una scalata inaccessibile, dell’interpretazione solipsistica, dove, in cima alla vetta, «la filosofia finisce per trovare nell’arte solo se stessa» (Perniola, p. 85), in una spirale, che si riavvolge sempre su concetti che invece di discutere dell’Io dell’opera d’arte, dispiegano quello dell’interprete che recita il copione della propria filosofia come «autoconoscenza», mancando quello che era lo scopo iniziale «d’intendere ciò che è altro da se stessa», risolvendosi in una mancanza che il filosofo crede di vedere nell’arte, forse non pensando che, così come c’è una matematica senza numeri, così esiste una filosofia senza assiomi, costituita solo da immagini, le quali non sanno proprio che farsene delle parole. [32]

 

Questa condizione che permane da troppo tempo e che pare sia diventata patologica, l’hanno rilevata, oltre Perniola, diversi autori come Adorno, Derrida e che io ho descritto in Introduzione al pensiero obliquo,[33] è superata dalla semplice osservazione che, se si vuole immettere la propria concezione dell’arte, anche se è basata sugli studi delle conoscenze già acquisite, consolidate e condivise, si dovrebbe continuare a possedere quel distacco aperto alle nuove teorie e opere visive, senza il pregiudizio d’escludere a priori quel che non piace, ciò che si crede “sbagliato”, avendo l’accortezza di non scivolare nell’eccesso opposto d’accettare tutto senza criticità, anche perché di strumenti teorici ne sono stati forniti in quantità, dalla teoria della falsificabilità in scienza (Popper), alla decostruzione in filosofia (Derrida), alla morale di Foucault, per cui, la domanda di Perniola «di quale tipo di conoscenza è portatrice l’esperienza artistica», che non ritiene «particolarmente presente all’attenzione degli artisti e ai poeti dell’epoca moderna» (p. 84) continua nell’esperienza di quegli artisti che fanno risalire lo studio dell’arte al rinascimento, quando Alberti teorizzava sulla prospettiva scoperta da Brunelleschi, e Piero della Francesca e Paolo Uccello si smarrivano nella bellezza delle proporzioni matematiche. Gli artisti che hanno voluto proseguire l’aspetto polemico delle libertà conquistate dalle avanguardie del Novecento, con il ripetere quasi le stesse operazioni, dovrebbero venire considerati, come quei musicisti che eseguono gli stessi brani di musica classica o jazz, per i quali si paga il biglietto per assistere alle loro performance, oppure gratuitamente quando l’evento è organizzato dai comuni o altre istituzioni, in ogni caso, io preferisco le opere che estendono sempre le conoscenze, attraverso l’impiego di un linguaggio che sappia affascinarmi. Se poi le informazioni, risultano utili o meno, questo è compito di chi ha il potere di decidere, e non mi sembra che esso venga esercitato con grande apertura mentale, visto che io ancora non so se esprimo qualcosa di valore per gli Altri. Allora mi consolo con le teorie espresse da Adorno e Horkhaimer in Dialettica dell’illuminismo (1944), in Il mercato dell’arte (1973) di Karel Teige, in Produzione artistica e mercato (1975) di Francesco Poli, in modo da farmene una ragione; una ragione distrutta (György Lukács Distruzione della ragione, 1953), eclissata (Max Horkhaimer: Eclissi della ragione, 1947) e a cui si è dato l’addio da molto tempo (Paul Feyerabend: Addio alla ragione, 1987). [34]

 

Fa piacere leggere brani come questi: «Bachtin pone al centro della sua riflessione estetica il bisogno di riconoscimento provato dall’autore: l’esperienza estetica non è, come vuole Dewey, un fenomeno che trova la sua conclusione nella realizzazione dell’opera d’arte, quasi che l’autore fosse autonomo e autosufficiente. In realtà l’essere umano non riesce a completare la percezione di sé da solo, ma ha bisogno dello sguardo dell’altro: io non posso diventare me stesso senza l’azione dell’altro. (…) L’esperienza estetica presenta perciò un carattere essenzialmente dialogico: i valori di una persona dipendono dalla testimonianza e dal giudizio altrui. Senza la partecipazione altrui io sono per me stesso irreale. Perciò Bachtin rifiuta la teoria dell’empatia, che considera l’esperienza estetica come una partecipazione dell’io sulle cose: in opposizione a essa introduce il termine essotopia, che appunto designa la condizione di trovarsi al di fuori di se stessi. Il centro dell’esperienza è perciò dislocato all’esterno, nella coscienza e nel sentire dell’altro». [35] Comunque, continuare a dipingere, dopo aver letto i suddetti libri, dove viene analizzata la condizione dell’arte e le leggi di mercato, ha del temerario e dell’incoscienza, se poi, quel che ho prodotto, è valido, utile al concetto d’innovazione artistico e di quello dello stile, o forma, questo è un compito che spetta alla critica.

 

 

 

 

 

 

Ho conosciuto il pensiero di Bachtin grazie al libro di Perniola, e subito è affiorato un mio aforisma:

         

La durezza del mondo mi è inconcepibile. L’arte mi dona - di tanto in tanto – una delicata sensibilità, sufficiente a farmi sprofondare nelle cose, per meglio immergermi in me stesso e ritrovare l’autenticità del mio essere, al punto che la parvenza cessa di essere soltanto parvenza, e diventa una via, un passaggio e una porta per accedere nell’al di là della materia, in modo da vivere l’espressione della più alta “trascendenza” profana. È un mondo in cui si possono avvertire soltanto sensazioni appena percettibili, che a stento, hanno qualcosa in comune con la materia, tanto da non riuscire a comprendere come dalla solidità della carne, possano scaturire sensazioni così intense e delicate. Riuscire a penetrare in questo mondo, vedere i pensieri che gli appartengono come oggetti di riflessione non è facile e come ciò possa accadere è per me un mistero

 

È interessante sapere come un autore scrive i suoi pensieri, i quali, come ha dimostrato la psicoanalisi, giungono da molto lontano, attraverso un percorso “tortuoso”, sempre, o quasi sempre inconscio e che tale rimane per lunghi anni. Solo fortuite coincidenze, un lavoro costante d’analisi, studi che nemmeno si sa, quando veramente iniziano (senza bisogno di risalire all’alba dei tempi), concede di raggiungere quel livello di coscienza in grado di consentire il riconoscimento, in tutto il loro valore, quasi sempre, lasciato marcire nei recessi più inaccessibili della psiche, e che solo rarissimi momenti di lucidità, ammettono la scrittura, e nemmeno allora si è certi d’aver “scoperto qualcosa”, come è accaduto a Freud, il quale ha scritto che queste intuizioni, possono accadere una sola volta nella vita e a Gauss, Bolyai e Lobačevskij, quando scoprirono la geometria iperbolica, indipendentemente, l’uno dall’altro, o ancora come il calcolo infinitesimale di Newton e Leibniz. A me, in piccolo, è accaduto lo stesso episodio. Dopo aver terminato Introduzione al pensiero obliquo, rilessi testi precedenti (Scritti sull’arte testo e Paesaggi dell’anima, 2000, uno spillato, di quattro facciate, otto pagine, entrambi a colori, stampati a mie spese, dove sono emerse espressioni che hanno costituito la struttura portante dell’Introduzione), e anche fogli sparsi scritti in gioventù, nei quali ho trovato il nucleo centrale del mio pensiero, e che continua ad arricchirsi, grazie ad una maggiore consapevolezza, ricevuta dall’apporto degli autori, in sintonia con il mio modo di vedere il mondo. [36] Nel frattempo mi sono occupato di altro. Avrei voluto continuare a interessarmi del pensiero obliquo (che in questi giorni ho equiparato alla teoria quantistica, ma devo lavorarci), ma le delusioni mi hanno portato a rimuovere il tutto e a non pensarci più per non rovinarmi la salute. Dovrei avere la giornata di quarantotto ore (come minimo) per realizzare il cinque per cento di quel che mi bolle nella mente, ma ho imparato l’arte della pazienza e ciò non mi turba, se poi penso che tutta la realtà è effimera, il lettore comprenderà bene, che, se non avrò compiuto quel che costituisce il centro delle mie ricerche, il mondo continuerà a girare, compiendo regolarmente la sua orbita (sempre che un pianeta “vagabondo” non gli piombi addosso).   

 

 

 

 

METAMORFOSI

(Racconto)

 

 

Perché siamo come tronchi nella neve.

Apparentemente vi sono appoggiati, lisci, sopra,

e con una piccola scossa si dovrebbe poterli  spingere da una parte.

No, non si può, perché sono legati solidamente al terreno.

Ma guarda, anche questa è solo apparenza.

F. Kafka

 

 

 

Mi strappai il cervello, scivolai in una buca lunga quanto il corpo e aspettai che con la primavera sbocciassero i primi germogli. Li volevo bianchi e rosa, ma se fossero stati di un altro colore, non li avrei, di certo rifiutati. «Bisogna prendere ciò che la vita ci offre» ripetevano spesso i miei genitori e io li accontentavo piangendo sommessamente. Allora mi abbracciavano per unire le loro lacrime alle mie e per farsi perdonare d’avermi concesso la vita. Venne la primavera. Aspettavo con ansia che sbocciassero i teneri germogli. Fremevo d’impazienza e agitavo allegramente i rami carichi di foglie. Gli alberi vicini sembravano in festa, tanto erano pieni di boccioli colorati, la loro allegria si spandeva nell’aria ed era avvertita dagli uccelli che si libravano in alto, disegnando fantastici arabeschi tra le nuvole bianche e con i loro voli, noi toccavamo il cielo con le foglie fresche di rugiada, io soltanto ero senza fiori. Le radici si rmuovevano nervosamente, infastidendo le talpe addormentate e già prossime al risveglio. Una addentò una delle mie radici e prese a succhiarla avidamente privandomi così della preziosa linfa. Ma forse non era una talpa, e in verità, come avrei potuto sapere, di quale animale si trattava? Pensai a una talpa, ma poteva anche essere un topo, o un ghiro. Non potevo certamente immergermi con tutto il tronco sotto terra per vedere un animale che presto o tardi se ne sarebbe andato. Quindi, lo lasciai fare e con tanta pazienza aspettai. Intanto, l’incidente m’impedì di pensare al mio problema per qualche periodo, faccenda che, col trascorrere del tempo, iniziò ad assumere proporzioni inquietanti. Controllai se tutti i condotti funzionavano bene e a parte qualche radice rovinata, che sostituii quasi subito, tutto era in ordine. La constatazione mi diede un po’ di sollievo, ma ancora non riuscivo a spiegarmi come mai restassi senza germogli. La terra era ottima, ricca di sali minerali e di sostanze nutrienti, aveva piovuto in abbondanza durante l’anno e il colore splendente delle foglie lo dimostrava ampiamente. Non era questione di clorofilla né d’alimentazione. Noi piante non siamo come gli animali che possono cambiare il loro ambiente, quando se n’avverte la necessità. Dobbiamo fare molta attenzione al luogo ove immergere le nostre radici. Una scelta affrettata, poco meditata, dettata dalla necessità o condizionata dall’ambiente circostante può avere come conseguenza una crescita abnorme. Può significare un’esistenza difficile, contorta, piena di stenti e sacrifici che potrebbe condurre verso un’agonia senza limiti e poi alla morte, invocata come la pioggia nella siccità; ma anche una bella pianta, forte, rigogliosa, in splendida forma, che ha la fortuna di vivere in un bel terreno può fare una brutta fine prematura. Una tempesta, un uragano, un macigno che si stacca dal costone, un incendio che si sprigiona all’improvviso, attentano continuamente alla nostra vita. Niente è sicuro in questo mondo e non vi racconto a quanti disastri sono scampato. In fin dei conti, la mia preoccupazione attuale mi sembra ridicola e anche se non completo per il momento il mio ciclo naturale, è sempre una gran fortuna conservare per intero la corteccia. L’altra volta, per esempio, (credo sia passato un anno, o un giorno, oppure una vita intera, non ricordo bene, dato che il tempo, per me, scorre diversamente), un uomo, non so per quale oscuro motivo decise d’abbattermi. Se gli esseri umani parlassero con noi, magari soltanto per raccontarci le ragioni della nostra fine, forse moriremmo meno disperate, invece c’ignorano completamente e si rivolgono a noi solo quando ci devono abbattere selvaggiamente per i loro bisogni, spesso ingiustificati, o soltanto per crudeltà o ignoranza. Conoscendo a fondo la meschina natura degli uomini, curai di piantarmi ben lontano da loro. Scelsi un piccolo altopiano, distante molti chilometri, dal più vicino centro abitato, protetto a nord da una grande montagna ricca di foreste e aperto a sud in una grande valle, in modo da poter vedere il vasto orizzonte. Era terminato da poco un temporale sublime, come non ne vedevo da anni e le mie foglioline si agitavano liete alla brezza, per ringraziare il mondo per le cose buone che ci dona, quando dal folto della boscaglia, vidi emergere un uomo avvolto in un nero mantello, tutto zuppo di pioggia. Erano trascorsi molti e lunghi anni dall’ultima volta che vidi un essere umano e il mio nuovo stato aveva modificato i miei ricordi, al punto da cancellarli quasi totalmente. La sorpresa, fu quindi enorme, ma ancor più grande fu la paura, quando vidi che aveva una sega automatica; lo spavento divenne terrore e mi sentii perduto. Maledii d’aver perso la possibilità di movimento, ma avevo fatto una scelta e ora dovevo accettarla fino in fondo, anche se avrei pagato l’oro del mondo per un paio di gambe e fuggire da quell’incubo. Intanto, l’uomo guardava intorno come se sapesse bene cosa cercare, e, n’ero certo, voleva me. Osservava con infinita cura e lentezza, esasperando quegli attimi d’eterna agonia e da ogni fibra del mio essere emersero gocce salate, dall’antico sapore di lacrime. Egli s’avanzava minaccioso sempre più. Mai come allora ho invidiato le ali degli uccelli, le zampe dei cervi, i guizzi dei delfini abili ad immergersi negli abissi degli oceani e svanire nell’oscurità che protegge. Nessuno che non sia una verde creatura, può capire cosa significhi vedere avanzare un uomo dall’espressione idiota, con in mano uno strumento terribile e non poter far nulla per impedirgli di massacrare. Gli esseri umani non hanno nessun rispetto per la loro esistenza, figuriamoci per quelli che loro definiscono animali e piante, quando persino dalle pietre nasce la vita. Mi preparavo, dunque, ad affrontare l’inevitabile destino, ma un evento inaspettato cambiò il corso degli eventi. Aveva egli acceso l’apparecchio in un’esplosione di rumori infernali che si propagarono per l’intera vallata e già sentivo i denti della lama affondare nella mia corteccia, quando, all’improvviso, alcuni spari rimbombarono nel folto della foresta, perdendosi in lontananza, in un’eco che si spegneva tra le foglie. Vi fu un attimo sospeso, in cui si udì il frenetico volo degli uccelli e il cupo rumore del corpo che si accasciava in una pozza di sangue, mentre il suo attrezzo, cadendo, gli troncava adagio una gamba, tra urla, così forti, da piegare persino i rami più alti. L’arnese infernale continuò a ronzare ancora un po’, mentre i suoi lamenti si affievolivano gradualmente, a mano a mano che il suo corpo annegava nel suo stesso sangue, infine si spense. Poi fu soltanto silenzio, quando aprii gli occhi, fui felice di vedere i miei germogli colorarsi di rosa.      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

la farfalla di vetro volò sulla Terra,

dipinse il Mondo,

mille sogni si sparsero nel cielo

irradiarono tutti i paesaggi

e,

germogliando,

 imparammo ad amare

 

 

 

 

Il professor Giulio Maira, uno dei chirurghi di fama mondiale, direttore dell’Istituto di Neurochirurgia del Policlinico Gemelli di Roma, considera “bello” il cervello, oltre a “produrre” bellezza: «Ora che gli strumenti di analisi scientifica sono diventati più perfezionati, ci permettono di scoprire nel corso di un’indagine tecnica immagini che sembrano davvero dei quadri e che mostrano paesaggi di corallo appoggiati agli scogli su un fondale marino, meravigliosi alberi innevati sotto la luna». [37] L’organo più potente dell’universo è stato analizzato, scandagliato, fotografato, sottoposto alla risonanza magnetica funzionale per immagini (FMRI) e alla tomografia a emissione di positroni (PET); sono stati sezionati miliardi di cervelli, umani e animali, morti e vivi in tutto il mondo e si è appurato che il sistema visivo, è strettamente collegato al cervello, tanto da essere considerato “una cosa sola” ha molte aeree specializzate per ogni funzione che a noi sembrano separate, e che le variabili che influenzano la nostra produzione, fruizione e comprensione dell’arte sono molteplici: dalla cultura al livello di comprensione; dagli stati soggettivi e l’amore e le esperienze, non solo estetiche. Il professor Semir Zeki si è avvalso della collaborazione di Balths (La ricerca dell’essenziale), ha curato la mostra retrospettiva di Piero Dorazio a Locarno, dal titolo: Colore e cervello. Dal 1967 si occupa dell’organizzazione del cervello visivo nei primati, passando nel 1994 alle basi neuronali della creatività e dell’apprezzamento estetico, fondando nel 2001 l’Istituto di Neuroestetica, a Berkeley, proseguendo gli studi che risalgono al 1750, quando Alexander Gottlieb Baumgarten crea l’Estetica, il cui significato etimologico vuol dire: sensibilità (aisthesis). In un periodo nel quale si persevera nel considerare “la morte dell’arte”, la sua “inutilità”, compreso l’anacronismo pittorico e l’inefficacia della sua azione sulle persone e la società, coincidente con la mia venuta al mondo e la naturale autoformazione artistica, gli studi scientifici, psicologici, estetici, artistici sono continuati, sommando nuove conoscenze, le quali dimostrano, che le teorie che ne avevano decretato la fine (Hegel, Danto …),  erano e sono totalmente soggettive, poiché milioni di IO hanno realizzato meravigliose opere d’arte, siano esse sculture o dipinti o impacchettamenti di edifici e relativi cavalli nelle gallerie. «Naturalmente le persone continueranno a dipingere, a scolpire, a fare installazioni e così via, ma le loro opere si porranno in un contesto post-storico, che le confina in un edonismo effimero, privo di quel sostegno teorico che la filosofia aveva garantito loro, sia pure in un modo molto ambiguo e tendenzioso». [38] Le profonde argomentazioni di Danto, riportate da Perniola con grande lucidità, offrono lo spunto per dissertazioni infinite, ma che concernono il punto di vista dello studioso americano, molto soggettivo e radicale, il quale esclude il pensiero obliquo, e, di conseguenza, i suoi ragionamenti non ne tengono conto, procedimento che non segue Perniola. Infatti, egli, procedendo lungo le direttrici della logica, si chiede, come mai, se l’arte è “morta”, “inutile”, astorica, destituita, seguita ad assorbire migliaia di Io, in studi, i cui risultati continuano a stupire coloro che sono ancora in grado di accogliere il Meraviglioso, nonostante e a maggior ragione, le devastazioni compiute dai Potenti, intenti nel relegare la massa dei cittadini, nei recinti inquinati dei ghetti sempre più invivibili e degradati, non solo in senso fisico e paesaggistico: «Il fatto che essa sia stata tanto temuta non solo da Platone, ma lungo i millenni sia stata oggetto di censure e di controlli da parte della politica e della religione, resta qualcosa di paradossale. Se non dice niente di vero e non ha nessuna influenza, perché mai ha suscitato tanto ostilità, al punto da dover essere destituita, ieri come oggi, dai suoi diritti, se mai ci furono? Quale pericolo arreca alla società, al punto da minarne le basi? Una risposta potrebbe trovarsi proprio nella sua inutilità e inefficacia: in un mondo che è interamente dominato dagli interessi pratici connessi al potere e all’economia, l’arte ci introdurrebbe nell’esperienza estetica, la quale è appunto disinteressata ed estranea ai bisogni». [39] Ampliando il ragionamento di Perniola, viene spontaneo domandarsi come mai, scienziati, studiosi di arte, organizzazioni internazionali, tra le quali, il Premio Nobel, e mille altri enti o università, continuano ad occuparsi d’arte, sprecando il loro tempo e il loro denaro. Evidentemente «l’arte rappresenta una testimonianza preziosa del suo funzionamento e in ultima istanza, dell’uomo»[40] e non penso che il professore si riferisca soltanto all’arte del passato, né che consideri le immagini pittoriche “fuori tempo”, al contrario utilizza la terminologia artistico-estetica per comunicare la meraviglia delle connessioni neuroniche nelle regioni cerebrali, degni scenari di film di fantascienza, come quelle di Escher o del film di Richard Fleischer, Viaggio allucinante (1966) [41], ispirato dal romanzo di Isaac Asimov. Ed è esattamente un viaggio allucinante che s’intraprende lungo l’esplorazione dell’arte nei vari settori e discipline che ne compongono gli universi, esperienza che ho manifestato in opere come La foresta incantata (N. 61), o Paesaggio fantastico con figure geometriche (N. 62), del 1986, periodo assorbito prevalentemente dalla manualità. Esso preparerà le opere che ora sono in grado di comprendere e che l’inconscio lasciava emergere, forse sapendo che un giorno le avrei analizzate. Scelte guidate dal senso estetico inconscio, hanno dipinto sottosopra, la scia di luce che attraversa la foresta, l’impianto è, invece, costruito razionalmente, come un paesaggio fantastico con delle figure invisibili, ottenute coprendo semplicemente le zone che non andavano colorate; ottenute, quindi, per sottrazione, per mancanza e assenza, tutte istanze fondamentali con cui lavora l’inconscio e che all’epoca non conoscevo ancora e nemmeno il meccanismo.

Perché, dunque, il triangolo è rivolto verso l’alto e il fascio di luce emerge dal sottosuolo? Ora posso sapere che era l’inconscio stesso che saliva verso la superficie, nella direzione del giorno e gli studi che avrei compiuto negli anni che mi separavano dall’opera. Posso anche aggiungere, che le circostanze fortuite (?), le quali mi hanno permesso di lavorare a San Gallo e realizzare una gran mole di dipinti (evento che non mi è possibile replicare qui, e che dedico allo studio teorico), mi fa supporre, che già all’epoca, il mio Io inconscio, lavorava per darmi dei materiali, sui quali, lavorare in seguito e che nulla, in esso, è passivo: «La percezione non è un processo passivo: è il sistema nervoso che costruisce ciò che vediamo, ed è il cervello che attribuisce un significato ai segnali che riceve per permetterci di acquisire nuove conoscenze e fare nuove esperienze». [42] Questi segnali sono per la maggior parte, com’è stato ampiamente dimostrato, inconsci e soltanto lunghe ricerche e molte esperienze sono in grado di poterle comprendere. L’attribuzione di senso riesce se si conoscono i contributi degli Altri, sempre in relazione con le nostre esperienze, in uno scambio continuo di neuroni, così potenti da viaggiare nei secoli e farci dialogare con Eraclito, e in generale, con chi è a noi affine; inoltre il dipinto, con tutte quelle linee che s’intersecano, s’incrociano, s’illuminano riproducono lo schema neuronale con relativi assoni e dendriti, nell’evidenza di un paesaggio che ascende al livello della superficie e dell’apparizione e rivela una visione dell’interno più profondo, illuminato da flussi di luci, che in seguito, si sarebbero manifestati nel 2002, con la stesura dell’Introduzione al pensiero obliquo che allora non potevo sapere di avere dentro, poiché non avevo ancora acquisito le conoscenze teoriche, per analizzare la mia produzione. Ciò significa che ero biologicamente e culturalmente predisposto a slanci naturali e spontanei verso astrazioni artistico-filosofiche, dove poter indagare l’infinito, grazie ai neuroni-specchio, dove l’immensità dell’IO e del macrocosmo si fondono e diventano una cosa sola e che io indico nell’O maiuscola, simile all’infinitesimale microscopico, che governa l’ingovernabile quantico, accessibile fino ad un certo punto, poiché quando osserviamo i fotoni, ne modifichiamo l’esistenza, come se fossimo noi, con lo sguardo, a farlo vivere. L’impulso, divenuto sguardo, si riversa nei flussi invisibili e svanisce negli spazi senza tempo, lì, dove si materializzano le opere che modellano la mente, oltre i limiti della contingenza e, valicandoli, s’incuneano in tutti gli interstizi, tra neuroni sempre rinnovati, quando ri-creiamo i simulacri delle prime esperienze emotive che ci hanno ancorato al fantastico mondo dell’immaginazione continua, che solo la magia dell’arte e dell’amore riescono a ri-produrre. E senza immaginarlo, imitiamo lo stesso fenomeno del Big Bang, in scala ridottissima, minima ma vitale per il nostro Io, intento nel lavoro di vivere, assorbendo e contemporaneamente espellendo frammenti d’arte, poiché, se il rumore di fondo dell’universo è ancora udibile, gli atomi dei valori del Rinascimento sono ancora tra noi.

 

L’immagine artistica è già metafisica, poiché “scrive” la realtà nel linguaggio iconico, che è pura astrazione. Essa è la prima filosofia condannata da Platone, perché copia della copia, come se la riflessione filosofica non fosse anch’essa una copia del reale, equivoco voluto anche da Aristotele e decretato col testo Metafisica, dove fonda, attraverso il sillogismo, la logica tautologica, attraverso proposizioni non derivate, apparentemente universali, dove non si aggiunge, né si toglie l’ovvietà delle verità. Che Socrate sia un uomo e che sia mortale e che dunque tutti gli uomini siano mortali, ha permesso mistificazioni, sulle quali Chiesa cattolica e stato borghese hanno fondato la società occidentale fino alla metà Ottocento attraverso il potere assoluto e l’ignoranza del popolo, iniziato a scricchiolare in scienza con Charles Darwin (Origine delle specie, 1859; Origine dell’uomo, 1871) e in filosofia con Friedrich Nietzsche, la cui fama internazionale, oltre a costituire un’evoluzione culturale distante anni luce, ha avuto l’incalcolabile merito d’iniziare a re-introdurre l’Io nella totalità della persona istruita, separati da secoli di dominio politico, ideologico e morale, nel cui ambito, valevano soltanto etiche variabili e interessi personali, contrabbandati per valori universali. [43] Non è ancora l’IO, come l’intendeva A. Breton, quando scriveva della riunificazione di tutte le facoltà in possesso dell’uomo, per la liberazione totale del soggetto: economica, morale e culturale, ma l’inizio di una lenta presa di coscienza delle verità che riguardano il corpo e la mente, non più concepiti come opposti. Così si racconta la bellezza del paesaggio interiore, che le foto delle connessioni neuroniche rendono precise, come autentici paesaggi fantastici, contemporaneamente realistici e astratti, senza alcuna demarcazione di confini, riduttiva e inconsistente, in ambito esclusivamente pittorico e ancor più, tra le varie forme d’espressione estetica, morale o politica, fisica o mentale e quindi, secondo a quanto scritto e mostrato finora, per me tutto è Paesaggio: corpo, volto, statua, natura, cosmo, … le divisioni, le classificazioni, le categorie hanno importanza per chi si ostina a considerare statica la realtà, anche se molti, sono alla ricerca dell’ordine, della stabilità, dell’immutabilità, di leggi eterne, di codici e convenzioni, come la suddivisione di Io, Super Io ed Es, simile alla sequenzialità monotematica, radicata sulla difesa di valori uniformi validi per tutti. Probabilmente lo desiderano per seguire un’illusione che dura fin dai tempi di Platone, proteso nella ricerca dell’uniformità delle leggi estetiche, fisiche, etiche, morali e politiche, ma che gli studi continui, liberi da qualsiasi virus di pregiudizio, hanno sempre smentito, generando eterogeneità e cambiamenti (sia pur impercettibili, ma che gli strumenti, sempre più tecnologici dimostrano), rilevabile da tutti poiché, da sempre, un secondo non è mai identico al precedente, né una foglia è uguale alle altre. L’immenso IO, mai Super Io, continua a produrre diversità, repentini cambiamenti, e basta questa considerazione per far riflettere coloro che si ostinano nel volere l’uniforme, dove tutto è difforme, sia pur nell’identità dell’Io (Lévinas). L’arte mostra (e ha sempre mostrato) tutto ciò con chiarezza disarmante, [44] e l’ evidenzia, tanto più, quando lo nasconde nell’Io più profondo, fin dall’ovvia constatazione, che il primo paesaggio siamo noi, immersi in tutti gli altri paesaggi che riusciremo a interiorizzare e quindi a produrre, siano essi cambiamenti antropici o architettonici. Solo in essi, si potranno vivere tutti gli ambienti tra scorie e rifiuti d’ogni genere, e quando l’opera d’arte mostra il concetto, lo ignoriamo, poiché tutta la cultura dell’opulenza è, in gran parte e per i ceti meno abbienti, predisposta all’immondizia (T. W. Adorno), in particolar modo, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale e ciò basta a togliere tutta la poesia e il romanticismo, che illusoriamente ancora pervade la maggioranza, un tempo seguace dei rotocalchi e ora dei talk show, spacciandoli per cultura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

P. S. Non scrivo del Super Io, perché, se ne parlassi, anche solo per criticarlo, implicitamente, contribuirei a mantenerlo in vita, legittimando un’esistenza, della quale, non avverto necessità, del resto, basta dare uno sguardo, anche solo di sfuggita, alla Storia, per costatare i danni che ha causato. Se qualcuno riuscirà a convincermi che esso ha prodotto un solo fatto utile, allora ne scriverò in un libro futuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

APPENDICE I

 

 

 

PAESAGGI DELL’ANIMA

 

 

 

 

 

Modigliani ha dipinto tre soli paesaggi e a Diego Rivera gridava: “Il paesaggio non esiste”, al che il messicano gli rispondeva, urlando ancora più forte: “Il paesaggio esiste”. Avevano ragione entrambi. Sia il paesaggio, che la figura umana, esistono e a farli esistere sono proprio gli artisti che vedono nella realtà tutta, il fine dell’arte. Realtà molteplici e che riguardano l’interno e l’esterno, il presente e il passato, il sogno e il pensiero. È con Giorgione che il paesaggio divenne soggetto e non più ornamento delle figure umane. Egli capì che l’esterno non è così diverso dall’animo e nella Tempesta (1506 c. Venezia, Gallerie dell’Accademia) sembra quasi che abbia voluto farci vedere la psiche della natura e non soltanto la sua poesia. La spoglia roccia in primo piano è rivoluzionaria, in quanto occupa il centro, riservato tradizionalmente a soggetti più nobili, motivo che sarà ripreso da Corot con La Cattedrale di Chartres nel 1830 (Parigi, Musée du Louvre), il quale ha il merito di spostare l’interesse dal simbolico tradizionalmente elevato (soggetti sacri o pagani) alla strutturazione dei volumi e degli accordi cromatici, facendo coincidere materia e spiritualità non più metafisica, attraverso un geniale parallelismo semiologico tra il cumulo di terra e la splendida Cattedrale. Nel paesaggio e in molti altri soggetti adesso vi è la stessa intensità dell’anima più profonda.

I paesaggi sono stati mentali, geografie misteriose che risalgono dai profondi labirinti inconsci e si cristallizzano sulla retina con l’unico scopo di restituirci la nostra visione interiore. Null’altro che flussi, vaporosi come le nebbie dei quadri di Turner, o delle vedute di Venezia attraverso gli occhi di Monet, utilizzati fino al punto di esaurirli e diventare cieco. E forse sarà stato questo il motivo che mi ha iniziato alla pittura a olio e scoprire le Paludi, sbocco naturale dopo dieci anni di esercizio nel disegno da autodidatta. Ma cosa sono i paesaggi senza il pensiero? Null’altro che paludi, masse amorfe e ripugnanti da dove si può emergere soltanto attraverso l’aiuto degli Altri, poiché, anche se ne vieni fuori da solo e continui a non incontrare nessuno, persisti nei suoi labirinti, smarrendoti nei suoi infiniti meandri, anche se li dipingi con i colori dell’arcobaleno.

Le Paludi sono nella nostra mente ancor prima di trovarle all’esterno. Rosse, gialle, blu (il più spirituale dei colori) non importa, esse sono comunque, emblema di uno stato contraddittorio, poiché le vere paludi sono luoghi terrificanti. Non si può vivere in questi luoghi abitati da tutti quegli esseri odiati dalla civiltà. La palude è il regno del rifiuto, dell’emarginazione continua, delle sabbie mobili e della morte. Ma anche dei fiori più belli, degli spettacoli più fantastici, dei colori più sublimi. La palude è l’ossessione di restare intrappolati negli acquitrini pieni di rettili, di creature ripugnanti eppure così affascinanti da non poter distogliere lo sguardo. Animali che vivono accanto a noi, dentro di noi e che ci spiano, mentre ci accingiamo all’opera.

L’arte spiritualizza tutti i luoghi e tutti gli oggetti, ha il potere di rendere piacevole il ripugnante, vicino il lontano, l’informe formato. Le Paludi rappresentano un percorso poetico attraverso cui si materializza l’infanzia, dove l’acqua costituisce il primo elemento con cui veniamo in contatto, il logos primordiale della nostra nascita, l’origine di tutti i nostri desideri. È il primo contatto con il mondo, la prima conoscenza dell’universo, così come negli antichi filosofi greci era il mare l’origine del cosmo. Nelle paludi vi è il fascino dell’esotico, dell’avventura, del mistero. Un ritorno ai valori dell’animalità, il cui istinto è quel che per noi è il concetto. Le Paludi sono il simbolo dell’essenza della natura non contaminata, natura sempre più lontana dall’essere umano, divenuto una profonda distesa di solitudini ancora più profonde delle stesse paludi.

 

Lo spazio spirituale che attraverso l’azzurro delle acque e del cielo si collega ai grandi dipinti di Monet è il segno di uno studio filosofico-poetico, ancor prima di essere pittorico. Una ricerca volta all’acquisizione di una disciplina mentale e dell’armonico equilibrio interiore, attraverso la rappresentazione di paesaggi concreti lungo il sentiero della libertà e dell’utopia, il solo capace di abbattere i solidi muri della separazione e dell’incomunicabilità. La stessa esigenza che emerge dalla profonda intuizione di Francesco di Giorgio Martini che nella Natività (1484-1490, San Domenico, Siena), libera le figure in uno spazio aperto, davanti ad un grandioso arco diroccato, segno fin troppo evidente del desiderio di liberare la pratica artistica dal peso delle regole, simbolizzato dal sostegno che collega le due parti del muro, simile ad un ponte sospeso tra passato e presente. Ed è con Il ponte (1994) che stabilisco uno stretto legame con i dipinti di Monet, il più lirico dei pittori impressionisti. Nella sua lunghissima opera sulle Ninfee (1899) egli realizza una prima serie (dieci tele dal formato quasi quadrato 89 x 93 cm.) dove compare un ponticello giapponese che attraversa lo stagno, da lui stesso fatto costruire a Giverny; dipinti che prolungano la visione interiore, iniziata qualche anno prima con la serie della Stazione St. Lazare e della Cattedrale di Rouen (1894). Nelle Ninfee il cielo è riflesso nelle acque del laghetto invase dal fogliame, intrigo di caverne vegetali dove si specchiano le nostre immagini, ombre evanescenti di realtà sempre cangianti. Realtà sempre meno reali e che simili alle idee platoniche ci rendono ancora più trasparenti dell’aria che respiriamo. Realtà: nient’altro che false apparenze, nascoste dietro false apparenze e in cui la verità ci è possibile grazie a questo gioco di specchi, poiché ciò che È rimane sempre al di qua o al di là di ciò che È. Quel che è intuibile non è mai completo. Ecco perché l’arte ha il compito di far svanire ciò che ancora non è e non sarà mai: la vita vera. Svanire come le tonalità eteree delle Ninfee, divenute pura luce nelle visioni di Turner. Ecco come il simbolismo dell’anima si fonde con la tradizione e continua in quelle opere che dialogano attraverso il linguaggio dell’anima, identico a quello dell’arte. I muri sono simboli di solitudini; i ponti lo sono della comunicazione, soltanto essi permettono il passaggio tra mondi, valicando istantaneamente intere epoche cristallizzate, come splendide stelle nel Tempio della Storia.

 

Nel dipinto Il ponte la Diagonale dell’acqua taglia l’immagine in due parti simmetriche attraversate dal ponte, passaggio obbligato per accedere alle verità dell’arte, verità che possono essere scoperte interiormente come il più prezioso dei tesori e solo per intuito, non per logica. La Linea obliqua avvicina lo spazio, condensa i significati, introduce un elemento dinamico, porta in primo piano ciò che è trasversale e apparentemente non rilevante. Per questo la Diagonale può essere considerata come il simbolo stesso del Sogno. Simbolo che emerge in quasi tutte le mie opere come ne Il sogno di Mercurio (1997-1998), dove possiede il significato della sintesi poetica e della riunificazione di tutti i più alti valori dell’essere umano. È un paesaggio dell’anima dove l’essenza della natura è racchiusa nei corpi, levigati come statue di carne, sensuali come le divinità dell’amore. La continuità dall’antico al moderno è tutta nella Diagonale[45] della gamba di Venere, la quale prosegue idealmente e fisicamente in quella di Mercurio, come una linea Ideale della trasmissione dei valori dal piano storico-concettuale a quello, della vita, della materialità, dell’agire, dell’esistenza fisica nella felicità sensibile ed emozionale dell’estasi. La circolarità della composizione è evocata dai punti di contatto di tutte le figure. Essa subisce un’inversione verso la spiaggia con il cambiamento alternato delle gambe di Venere e di Mercurio, esattamente speculare con l’altra inversione costituita dalla gamba destra piegata di Afrodite e il braccio sinistro del Messaggero degli dei. Cambiamento che viene sottolineato dalla torsione del busto di Venere, il cui volto, esattamente al centro del dipinto, costituisce il punto di fuga ideale di ogni linea prospettica, aperta soprattutto sull’immaginario, il cui annuncio giunge attraverso le forme ingigantite dei cavallucci marini, messaggeri onirici di un mondo fantastico.

 

Anche questa composizione è basata sui triangoli, il maggiore del quale è costituito da Nettuno, Venere e Mercurio; sembra quasi che le figure siano un pretesto per nascondere una composizione geometrica e astratta, che dalla terra sale verso il cielo, passando attraverso il verde smeraldo del mare, così da formare l’altra Linea obliqua il cui vertice è rappresentato dal tridente di Nettuno. Tutto il dipinto emana l’idea magica del triangolo e del cerchio (invisibile), della realtà e dell’astrazione, del finito e dell’infinito in un dinamismo continuo e ieratico, che culmina nella torsione del corpo della dea dell’amore. La posa classica delle figure, in particolare quella delle Grazie: Eufrosine, la gioia; Talia, la prosperità; Aglaia, lo splendore, sono il simbolo della gioia di vivere degli impressionisti e che sembra essere stata spazzata via dal negativo della nostra epoca. E infatti nei nudi di Renoir ritorna lo spirito che animava gli artisti greci nel periodo del loro massimo splendore, lo stesso spirito che ha permesso a Canova di scolpire Le tre Grazie (Galleria dell’Ermitage, San Pietroburgo), le cui forme sensuali emanano un dolce erotismo, lieve come il candore della luce che avvolge il marmo, quasi fosse stato modellato dai baci e dalle carezze. L’equivalenza di Sogno e Realtà è data dalla consistenza pittorica di tutte le figure, inserite nella stessa visione di Mercurio che sogna, procedimento simile a quello di Füssli nell’Incubo (1781, Detroit, Intitute of Arts), e diverso da quello di Ingres ne Il sogno di Ossian (1813, Montauban, Musée Ingres), il quale separa i due mondi variando le tonalità cromatiche, fino al monocromo per la realtà onirica.

Se la prima rappresentazione di sogni mostrava incubi, continuati con l’opera di Redon, anticipatore del simbolismo e del surrealismo, Il sogno di Mercurio capovolge questa visione ed esalta l’entusiasmo per la vita e l’amore per i sensi, e l’inserisce nella quiete del mare verde e nell’atmosfera sospesa ed ieratica delle figure. Scrive Kandinsky “Mescolando questi due colori (il giallo e il blu) diametralmente opposti in un equilibrio ideale si forma il verde. I movimenti orizzontali, quelli centrifughi e centripeti, si neutralizzano a vicenda. Nasce la quiete. (…) Il verde assoluto è il colore più calmo che ci sia: non si muove, non esprime gioia,tristezza, passione, non desidera nulla, non chiede nulla. (…) Il verde è il colore fondamentale dell’estate, quando la natura ha superato la primavera, il periodo Sturm und Drang dell’anno, e s’immerge in una quiete appagata. Quando il verde assoluto perde il suo equilibrio, si alza verso il giallo e diventa vivo, giovane, gioioso. La mescolanza col giallo gli dà nuova forza. (…) Da un punto di vista musicale esprimerei il verde assoluto con i toni calmi, ampi, semi[46]gravi del violino”. Il verde assoluto dei cavalli marini, perfettamente verticali al centro del dipinto, quasi una corona fantastica sul capo di Venere, spinge la composizione verso il cielo e collega la materialità terrena alla spiritualità dell’azzurro, attraverso il giallo della sabbia, lambita dai movimenti lievemente spumeggianti delle piccole onde. Le divinità sono tutte color terra di Siena, lo stesso colore della spiaggia, eppure sono tutte diverse grazie all’impiego dell’ocra gialla, della terra di Siena bruciata e del bianco. Lo sguardo di Venere rivolto all’indietro sembra voler evidenziare l’impossibilità della bellezza e dell’amore dei nostri tempi, come se la vera armonia si potesse trovare solo nel passato o nell’intimo animo umano. E infatti, continuare a dipingere oggi ha il sapore dell’antico, di una pratica completamente fuori da qualsiasi contesto sociale, al punto da fare del pittore una creatura immaginaria, un sognatore alla ricerca della sua isola esotica, lontana dalle solitudini alla deriva.

 

 

Le isole di Maldive I e II, ma anche quelle di molti altri dipinti, condensano diversi racconti il cui centro è costituito dal Nudo, simbolo dell’erotismo per eccellenza, ma ancor di più della Verità, luogo dove si vorrebbe vivere, ma ancor di più dove si potrebbe vivere, e non solo nella narrazione onirica, ma soprattutto quando si rappresentano generi “realistici”, anzi ancor di più quando si sceglie l’iperrealismo, dove l’effetto di straniamento risulta ancora accentuato per meglio ri-creare il Sogno volendogli aderire fino in fondo e portarne un pò in questa landa desolata che si chiama civiltà. I paradisi naturali I e II, con il cambiamento di scala nella realizzazione del paesaggio e degli oggetti: vasi, fiori, personaggi costituiscono l’opposto esatto dei valori arte-vita, volutamente riferito ai Paradisi artificiali di Charles Baudelaire già dal titolo stesso, dialogando con il suo concetto di artificiale, con lui che visse in un’epoca ancora non totalmente alienata alla Natura. Cos’è, infatti, naturale e cos’è artificiale dato che persino la “macchina” è il risultato dell’ingegno umano e quindi conquista indiretta e non voluta della natura? Però mai tale prodotto è stato così lontano da essa!

Se con Marcuse è la realtà dell’arte ad essere autentica, l’iperrealismo, un’ennesima sfida alle capacità umane di competere con la fotografia, soprattutto in un periodo favorevole alla pittura astratta, convalida l’intuizione di Marcuse e costituisce la premessa necessaria per sognare da svegli, dopo la dura fatica di costruire un sogno con la precisione di un ingegnere e la grazia di un  architetto. Se nei Paradisi naturali I si dà maggior rilievo alla figura umana cambiando le proporzioni così da valorizzare i corpi, nel secondo dipinto sono i vasi ad essere ingranditi e le figure umane, disposte simmetricamente si trovano ad essere nello stesso tempo grandi e piccole, aumentando l’effetto di straniamento, accentuato dal nudo nel vaso in quanto è nello stesso tempo fuori di esso. I paradisi naturali II è un racconto surreale che si articola sui contrasti, analogamente all’altro dipinto San Giorgio in lotta con il Drago (1998), dove le forze contrapposte si alternano nell’immobilità sospesa dell’attimo che sta per accadere e che è già passato. I paesaggi onirici, resi con la tecnica del troemp-l’oeil, dilatano l’immaginario e superando i limiti della realtà si trasformano in segni dell’anima. “La visione poetica è alta fantasia: intuizione sensibile di una realtà spirituale illuminata dalla discesa di un raggio celeste.”[47]

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo studio dell’artista (1999) è una piccola storia dell’arte, il cui richiamo esplicito alle maggiori correnti dell’arte contemporanea si fonde con il tema dell’assenza-presenza, forse per evocare un’arte che non esiste più, dato che da tempo si celebra la morte dell’arte, o almeno di quell’arte pittorica ormai definitivamente consegnata alla storia. Non a caso Erodoto e Tucidide sono posti in alto, proprio per evidenziare il carattere anacronistico di fare pittura oggi e anche per suggerire una possibile via di fuga nella storia. Ma se esiste l’opinione comune che la ritiene sorpassata, ne esiste un’altra in cui non si può fare a meno della pittura. Non si può impedire a nessuno di dipingere, con tutti i rischi che questa attività comporta, pericoli ben evidenziati dalla contrapposizione dei ritratti di Socrate e Faruffini[48], i cui sguardi sono rivolti in direzioni opposte e la cui torsione del volto del pittore tenta disperatamente di riportare la ricerca artistica nell’ambito della conoscenza in generale. Infatti, sia la filosofia che l’arte sono strumenti d’indagine dai numerosi punti in comune, culminati nella nascita dell’Estetica, la più scientifica tra le teorie sull’arte. Il pennello posato sulla tavolozza che collega il cavalletto al pane enuncia la volontà di vivere del proprio lavoro, desiderio negato a molti in quelle società dove il fantastico individuale ha scarsa rilevanza, pensiero accentuato dalla sedia vuota, segno dell’artista che non c’è più, ma che è esistito e continuerà ad esistere, nonostante le forze negative della società.

            Un altro concetto fondamentale, ripreso molte volte in ambito letterario (Sulle acque scure dei Navigli, La stella di cristallo, Sogni il ponte e altri racconti), è quello della continua corrispondenza tra il fantastico e la realtà, in un perenne divenire dialettico sintetizzato dal volo delle farfalle che emergono dal quadro dipinto dentro il quadro. La Diagonale che collega la sedia al dipinto posto sul cavalletto attraverso le farfalle forma una V con i busti di Faruffini e Socrate e inserisce il triangolo nella forma rettangolare di tutto il dipinto, dove la libreria è dominata dal quadrato. Il riferimento a Mondrian intende ribadire ancora una volta l’idea che si può giungere alla purezza delle forme anche attraverso l’arte realistica. Il sincretismo di figurativo e forme geometriche ha lo scopo di liberare la visione oltre le apparenze per spostare le molteplici percezioni dal piano sensibile a quello mentale. L’altra Diagonale immaginaria parte dall’anfora e culmina nel busto di Tucidide attraverso la rosa, tocca il punto centrale nel ritratto di Faruffini, per cui tutta la composizione assume il significato di un omaggio a tutti quei pittori che a causa delle miserie delle varie società, sono stati costretti a togliersi la vita.

 

Mosca 2000/2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

APPENDICE II

 

RAZIONALISMO E IRRAZIONALISMO

 

 

 

 

 

Il razionalismo e l’irrazionalismo hanno da sempre costituito i poli entro cui si è incanalata la conoscenza e costituiscono le due principali correnti che ancora oggi caratterizzano la ricerca artistica, e scientifica. Per molti secoli gli studiosi si sono logorati nel tentativo di dimostrare la superiorità dell’una o dell’altra conoscenza, anche se vi sono stati numerosi tentativi di mediazione. Così come esistono i fondamenti della scienze esatte, così esistono i fondamenti della persona, non meno importanti dei primi. Già i Greci avevano scoperto che la logica, spinta fino alle estreme conseguenze, confina con l’irrazionalismo, come nei paradossi di Zenone di Elea (V sec. a. C.), discepolo di Parmenide, grande idealista, il quale fornirà le basi del sistema platonico, ripreso e perfezionato da Hegel, in particolare nella Scienza della Logica, dove invita ad abbandonare la logica comune delle esattezze, in quanto l’essere (argomento centrale della logica metafisica) procede su basi diverse: «La cosa non va affatto come nelle costruzioni che ci si richiede di fare per ottenere la prova di una proposizione geometrica. In geometria è solo nelle dimostrazioni, che si vede come si fosse fatto bene a tirar precisamente queste linee, e poi, nelle dimostrazioni stesse, a cominciar a comparare queste linee e questi angoli; ma, per sé, in questo tirar linee o comparar, cotesto non si comprende».[49] Gli scienziati hanno ribattuto con il separare nettamente la filosofia dalla ricerca scientifica potenziando gli aspetti pratico-materialistici a svantaggio di una formazione umanistica (e quindi etica) con tutti i problemi che ne sono derivati e che continuano ancora oggi irrisolti. La critica feroce alla dialettica hegeliana, dove i positivisti vedevano una confusione inammissibile nella coincidenza degli opposti (identità di essere e nulla, cominciamento e infinito, l’uno e il molteplice…) ha trovato terreno fertile tra gli industriali, i quali hanno privilegiato la ricerca tecnologica a scapito di quella umanistica. Eraclito attribuiva la fonte primaria della conoscenza e individuò nel divenire una delle costanti fondamentali dell’essere, capovelgendo la concezione statica parmenidea, la quale veniva sensibilizzata e inglobata nella dialettica, strumento necessario per superare l’apparenza dei sensi e «cogliere l’unità nella molteplicità, l’armonia nelle contraddizioni» (Geymonat).

Con la logica di Aristotele e con il famoso principio di non contraddizione (la quale fornirà gli elementi operativi formali anche alle scienze naturali, insieme a quelli di Pitagora, Euclide, Democrito, Eudosso, Archimede, ecc.) si getteranno le basi del pensiero scientifico occidentale. Gli stoici, inoltre, distinguevano rappresentazioni irrazionali e razionali, queste ultime come effetto della dell’intelligenza, ma non riuscirono a dare un nome a quelle irrazionali. Caso curioso, ancora adesso vi è molta incertezza sul significato ad esse attribuito, visto che il significato varia da individuo a individuo, per cui, ciò che è razionale per una persona può essere interpretato come irrazionale per un’altra. Uno degli episodi più celebri è la lite tra Chagall e Malevič, lite che spinse il primo a dimettersi dall’accademia che dirigeva e che aveva fondato a Vitebsk: «Benché periferico, l’episodio è estremamente significativo per la storia delle idee artistiche del tempo. Verteva, in sostanza, sul problema fondamentale della lingua: per Chagall favella e favola sono (come di fatto sono) la stessa parola, con la favola s’inventa la lingua: per Malevič (come in Olanda per Mondrian) il discorso è logos ed il logos logica pura».[50]  In questo dualismo, irrisolto a livello soggettivo (e quindi di psicologia individuale) ma mediato e risolto dalla dialettica sul piano teoretico sovraindividuale è facile vedere altre celebri opposizioni: Parmenide-Eraclito, Hegel-Marx-Engels, Michelangelo-Raffaello…

Esistono però personalità dove razionale e irrazionale, logos e favola, scienza e poesia coesistono contemporaneamente senza contrasti, come per esempio in Escher. La sua visione dialettica gli permette di conciliare gli opposti (astrazione-figurazione, scienza-poesia, immaginazione-realtà, ordine-disordine) e di realizzare opere straordinariamente profonde fino alle soglie dell’inconscio. Il problema fondamentale della lingua intesa da Chagall non è altro che il problema centrale dell’individuo, al quale non gli si può imporre nessuna lingua. Quel che fa veramente grande Chagall è il non tener conto di nessuna regola che non sia quella dell’essere nella sua globalità. Capisce che la forma dell’arte racchiude tutte le logiche e non solo quelle pseudoscientifiche, come affermano ad oltranza Malevič, Mondrian e diversi altri. Lo sforzo titanico della filosofia e dell’arte razionale per dare ordine al mondo è uno dei più alti e diventa fondamentale con l’ausilio delle scienze. Il fatto, che quest’ordine fatichi ad essere raggiunto non deve far supporre che sia impossibile raggiungerlo, ma deve stimolarci a riflettere e agire continuamente affinché l’ordine non sia solo quello del dominio, qualunque esso sia (politico, tecnologico, ideologico, ecc.). Mondrian ha ragione quando individua nel pensiero l’elemento unificatore del soggetto, ma sbaglia quando attribuisce al sentimento tutti i mali della società e lo elimina dalla sua concezione. Per questo il suo pensiero etico (vicino a quello di Spinoza) è rigido come la sua pittura e altrettanto utopico come quello di molti razionalisti, in quanto, non tutte le azioni umane sono dettate dal pensiero e nulla ci assicura che sarebbero migliori se lo fossero. Le divergenze che hanno caratterizzato lo sviluppo dell’arte moderna, sintetizzato dallo scontro Chagall- Malevič si ripresentano nel rapporto Mondrian-Van Doesburg, dove compare quel sottile veleno della linea obliqua, causa della loro rottura e la fine dell’esperienza De Stijl, una tra le più importanti dell’arte contemporanea. Infatti, il contributo del neoplasticismo fu fondamentale, non solo per lo sviluppo dell’architettura, ma anche per un forte svecchiamento del linguaggio artistico, logorato da secoli d’uso e compromesso da termini ormai svuotati di significato, a causa della mancata applicazione pratica delle regole morali, culminata nel massacro mondiale. La forte necessità di chiarezza, soprattutto la Grande Guerra, ha condotto Mondrian, Van Doesburg, Oud, Rietveld, Van Eestern, Vantongerloo, ad affidarsi sempre più alla ragione e a criticare tutto quello che secondo loro era da considerare irrazionale. Le teorie di Mondrian cominciarono ad essere conosciute dal primo numero della rivista (ottobre 1917) e continuarono fino al 1924, quando Van Doesburg introdusse un elemento più dinamico nella staticità delle forme caratteristiche di Mondrian (la famosa diagonale, la quale ha il merito di accorciare lo spazio e può essere considerata come una funzione di condensazione psichica e quindi come elemento di risparmio energetico). Cezanne aveva già operato una riduzione delle forme elementari della realtà riducendo l’immagine ai solidi geometrici, lavoro che sarà di grande importanza per Picasso e l’arte in generale. Mondrian va ancora più in profondità per giungere a riprodurre «l’espressione della pura realtà» e trovare così i fondamenti delle leggi artistiche. Arriva a considerare i contenuti e le forme realistiche come elementi di disturbo, un ostacolo derivato dalle sensazioni troppo legate ai significati naturali apparenti, e perciò sempre mutevoli, insufficienti a cogliere la vera struttura della realtà.

Realtà considerata disomogenea, squilibrata, oscura e che può essere conosciuta e modificata con la ragione, attraverso la quale «lo spirito nuovo non può esprimersi che nella realtà vivente dell’astratto». È palese l’esigenza di porre un ordine pratico-mentale attraverso la disciplina delle pure forme geometriche, più che una vera e propria convinzione di conoscere la realtà nelle sue forme essenziali, dato che nella mente coesistono contemporaneamente istanze razionali e irrazionali. Gli obiettivi che si propongono i fautori del neoplasticismo sono quelli di eliminare gli impulsi irrazionali, il disordine, definire le funzioni logiche operative «per esprimere plasticamente rapporti non forme» (M. G. Ottolenghi) ed elaborare una prassi artistica che sia anche uno strumento per giungere ad una visione razionale. Il ruolo fondamentale attribuito alla purezza dei colori assume sotto questo aspetto il veicolo privilegiato per giungere ad una coscienza depurata dai «barocchismi moderni» (espressionismo, surrealismo, figurativo…) e ottenere il giusti equilibrio interiore, l’accordo felice di particolare e universale, individuale e sociale dove sono evidenti le influenze idealistiche e teosofiche.  Ciò di cui De Stijl non ha tenuto conto è la grande varietà e la ricchezza dell’animo umano che ancora oggi si manifesta nelle opere strutturate proprio con quelle forme che i neoplasticisti avevano eliminato. Se lo stesso Van Doesburg aveva avvertito l’esigenza di una variazione (rimanendo sempre all’interno di una concezione razionalistica) ciò significa che a lungo termine i significanti pittorici geometrici sono insufficienti per rappresentare le leggi della realtà, le quali sono essenzialmente dinamiche. L’arte fantastica riesce a cogliere più in profondità l’intimo dinamismo delle varietà (fisiche, mentali, oniriche…), possiede sempre il carattere di astrazione e in più lo traduce, a vari livelli, in un linguaggio accessibile al vasto pubblico, riuscendo così ad eliminare il problema della monotonia e della difficoltà di lettura, riservata solo ad un pubblico di specialisti. Se consideriamo l’origine del procedimento artistico, è inevitabile scendere nel «profondo», e infatti una lunghissima lista di studiosi, da Calvesi a Eco, da Freud a Lacan, da Hegel ad Adorno, dimostra che le origini del processo artistico vanno ricercate nel desiderio, la cui struttura (libera da ogni contenuto ideologico) è comune a tutti. Ciò che risulta insuperabile è la difficoltà di collegare questa struttura con le varietà delle espressioni, le quali si scontrano con le resistenze degli apparati sociali.  Le critiche alla società sono state realizzate da innumerevoli punti di vista: dai filosofi della scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse) a quelli esistenzialisti (Kierkegaard, Heidegger, Jaspers); dai fenomenologi (Husserl, Merleau-Ponty, Sartre), agli storicisti contemporanei (Dilthey, Mannheim, Dewey) e inoltre dagli psicanalisti, psicologi, sociologi, neopositivisti, artisti, ecc. La varietà labirintica delle analisi e delle interpretazioni ci fa comprendere la relatività delle teorie, in relazione ai fenomeni multiformi che costituiscono la realtà e fa emergere il ruolo fondamentale esercitato dal pensiero soggettivo.

L’impotenza dell’arte a modificare il negativo della nostra epoca è lucidamente manifestato, dalla rinuncia pittorica di Duchamp e alla conseguente scelta dei materiali prodotti dall’industria da lui definiti ready-mades, in un’estrema razionalizzazione della prassi artistica a cui è seguito il «silenzio», dato che nemmeno adoperando gli stessi strumenti materiali della causa dell’alienazione umana è possibile sfuggire all’inutilità del proprio operare. Il silenzio di Duchamp può essere una rinuncia a desiderare come i saggi orientali, i quali vedono nel desiderio una catena che lega gli esseri umani al carro degli eventi, da cui derivano sofferenze e frustrazioni. E infatti nella storia artistica di Duchamp è possibile considerare il Grande Vetro come l’ultimo desiderio pittorico in una società che non ha più posto per l’arte, né per l’artista. Non a caso, Calvesi definisce Duchamp invisibile, soprattutto per evidenziare il ruolo assunto dall’artista nella società tecnologica, completamente diverso da quello delle epoche precedenti. Ora che lo sviluppo del capitalismo avanzato ha trasformato le possenti investigazioni hegeliane in palesi ingenuità (ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale) e la stessa Ragione è insufficiente «ad afferrare il reale non per la sua propria impotenza, ma perché il reale non è Ragione» (Adorno), occorre stabilire quali sono gli strumenti idonei per attuare la razionalizzazione della realtà, operazione che non può ignorare il linguaggio artistico, soprattutto alla luce dell’orientamento generalizzato che lo esclude sempre più dalla reale fruizione sociale, bloccato dalla coscienza della propria impotenza a priori e quindi dall’impossibilità di trovare un accordo tra la forma irrazionale della realtà e quella utopico-razionale della libertà. Unione problematica nell’esistenza completa ma reale nell’immaginazione, dove si cela la trappola dell’emarginazione, e che permette, però, la possibilità di un’arte come Teoria Critica, dove attuare i significati interiori sfuggiti alla svalorizzazione della cultura massificata. Un’arte, cioè, strettamente personale, appartata fin nei più remoti luoghi della memoria, lontana da qualsiasi riferimento a tutti gli alienanti linguaggi consumistici, unico luogo dove poter far vivere i pochi valori che ancora, malgrado tutto, ci restano.

Da: Scritti sull’arte, 2000.

 

 

 

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Nel libro dei simboli, la «lucertola rappresenta l’anima che cerca la luce; quando la trova, rimane in un’estasi contemplativa dalla quale non riesce a distrarsi».[51] È questo uno dei significati principali della trilogia con la quale dialogo con Mondrian: e pur nella ragione estrema, non dimentico l’essenza della più profonda umanità, errore (se tale si può definire in tempo di democrazia), che hanno commesso in molti, ma non Turner, la cui grandezza diventa immensità, come la luce che ha immesso nelle sue tele, perché ha rinunciato alla fama contingente dei suoi estimatori contemporanei per amore dell’immortale verità, non solo dell’arte, ma soprattutto, quella etica, morale, umana e filosofica. È questo il significato della lucertola che compare dal vuoto di una piastrella mancante, ma non assente, mentre il “solido” pavimento della “razionalità” si dissolve in ogni direzione, perché la logica, al suo estremo, s’identifica con l’opposto. Infatti, il “ragionamento” nazista teso a eliminare i “non produttivi”, e riservava tutte le risorse del mondo agli “eletti”, non fa una grinza in una coscienza che vede negli altri, i diversi da eliminare. A quel tempo non conoscevo ancora che la lucertola è anche un simbolo di vita, luce e rigenerazione; per me, era un significato soprattutto di morte, non sapevo neppure che Mondrian colorava di bianco i fiori e i gambi naturali e che si metteva sempre di spalle alla finestra, per non vedere il paesaggio, il cui colore fondamentale è il verde, come la lucertola che si erge al centro del mio dipinto. Come potevo avere questi contenuti se il mio inconscio non me le avesse fatte emergere e mostrati attraverso il linguaggio della pittura figurativa? Come possono delle persone, siano esse studiosi famosi, o chiunque altro, decretare la fine dell’arte o della pittura, se ancora il pennello si rivela come il “sismografo” più idoneo per mostrare i molti io che costituiscono la persona nella sua totalità e che essa è collegata a tutte le altre, in mille relazioni invisibili e da scoprire? La spiegazione la danno gli studiosi della Scuola di Francoforte e molti altri che ne condividono il pensiero, dove si dimostra che il mega capitalismo post industriale, per sopravvivere, è costretto a “divorare” i suoi stessi “figli”[52], arrivando a minacciare la sovranità di stati interi, come Spagna, Grecia e Italia, non più con le armi, ma con il denaro: «Moltiplicando la violenza attraverso la mediazione del mercato, l’economia borghese ha moltiplicato anche i propri beni e le proprie forze al punto che non c’è più bisogno, per amministrarle, non solo dei re, ma neppure dei borghesi: semplicemente di tutti. Essi apprendono, dal potere delle cose, a fare infine a meno del potere. L’illuminismo si compie e si toglie, quando gli scopi più pratici più prossimi si rivelano come la lontananza raggiunta, e le terre “di cui i loro emissari e informatori non dànno loro notizie”, e cioè la natura misconosciuta dalla scienza padronale, sono ricordate come quelle dell’origine. Oggi che l’utopia di Bacone – “comandare sulla natura nella prassi” – si è realizzata su scala tellurica, diventa palese l’essenza della costrizione che egli imputava alla natura non dominata. Era il dominio stesso. Nella cui dissoluzione può quindi trapassare il sapere, in cui indubbiamente consisteva, secondo Bacone, la “superiorità dell’uomo”. Ma di fronte a questa possibilità l’illuminismo al servizio del presente si trasforma nell’inganno totale delle masse».[53]

Rimangono pensieri, immagini, postfazioni interminabili, poiché c’è sempre qualcosa di non detto, reinvenzioni di nuovi linguaggi, come quello di persona, non più maschera sociale, dove può trasformarsi, secondo le convenienze; l’arduo, e il molto, di quando ci si affida – perdendovisi - nei residui dell’adolescenza, mentre ancora si pensa di agire per una società migliore, più razionale, e, soprattutto “a misura d’uomo”, termine che nasconde la volontà di dominio, per cui è da preferire “a misura della Persona” , con la maiuscola, soprattutto per i bambini e gli adolescenti, con lo scopo d’indicare la dignità di ogni essere umano di vivere la propria vita come desidera, per godere di tutti i paesaggi che questo nostro straordinario Pianeta ci offre, pur nelle aporie dei suoi mali congeniti, non più favole indotte, ma guerre mondiali, che non riescono a risolvere giganteschi problemi umanitari derivati e che ancora incatenano nella grande mistificazione di massa, senza che si voglia, pur potendo, risolvere, a dispetto delle ingenti risorse che si utilizzano per armi e frivolezze varie, vale a dire, quel che continua a deridere l’ultimo brandello d’intelligenza umana. Siamo pianeti che si muovono in uno spazio sconfinato, chiusi nei limiti delle nostre percezioni e quando riusciamo a vedere qualcosa, al di là del nostro naso, veniamo colti da vertigini, perché… penetrare, immergersi e “abitare” con la più profonda sensibilità “all’interno” delle persone, della natura, degli animali, degli oggetti; vederli “dal di dentro”, ricrearli, farli propri, anzi: essere parte di loro, della totalità, non può non modificare gli infiniti Io che costituiscono la Moltitudine, il nostro stesso Io Medesimo. Ma la sfida più grande è quella d’abitare tutti questi universi e riuscire esprimerli in un linguaggio capace d’attrarre gli Altri, lontano da noi anni siderali. Eppure, per tutti coloro che viaggiano su simili astronavi di luci e suoni, di colori e musica, di arte e bontà, anche se procedono in dimensioni diverse o parallele, non sarà difficile incontrarsi, come, per me, non è stato per nulla arduo, immergermi nei dipinti di Monet, con il quale ho dialogato, addentrandomi in lunghe discussioni, nelle quali ho invitato tutti gli altri che sono riuscito a conoscere, mai separando filosofi da pittori, né poeti da scienziati, senza gerarchie preferenziali, poiché anche nel singolo secondo, vi scorgo il più grande cambiamento, necessario alla meravigliosa trasformazione di un’intera vita.

 

 

 

 

 

                                                      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PAESAGGI DELL’IO DELL’ES NON DEL SUPER IO

 

© FRANCESCO S. MOSCA

 

20113

 

 

 

 



[1]              Proseguita anche contemporaneamente graficamente con matite e chine.

[2]           In seguito si scoprirà che il “personale” è anche universale, soprattutto grazie alla psicoanalisi e alla neuroestetica.

 

[3]               In storia dell’arte sembra un dettaglio insignificante, ma si rivelerà agli inizi del Novecento fondamentale per la nascita dell’Astrattismo con Kandinskij, fino ad acquisire legittimità artistica negli anni Cinquanta e divenire addirittura “classica”, come un tempo s’intendeva, quella antica greca, romana e dell’Ottocento.

[4]              Se poi, l’io-pittorico, viene seminato per mezzo di colori, in profondità, con intuito, scienza, filosofia, poesia, etica, oppure no, è giudizio riservato ai critici, agli editori, ai funzionari delle istituzioni e ai detentori del potere in generale, il cui lavoro è stato ben analizzato da Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’Illuminismo, nel 1944, soprattutto nel capitolo: L’industria culturale, che reca significamente il sottotitolo: Quando l’illuminismo diventa mistificazione di massa.

[5]              Come ciò sia possibile è stato analizzato in Introduzione al pensiero obliquo, scritto nel 2002, autopubblicato nel 2013.        

 

[6]              Pierre Rouvè, Turner, p. 33, Milano, 1989. D’ora in poi si citerà il libro di P. Rouvè, solo con le iniziali.

[7]              La critica del super-io dovrebbe diventare la critica di quella società che lo produce; se essa ammutolisce davanti a questa, allora ci si arrende alla norma sociale dominante. Raccomandare il super-io per la sua inalienabilità o utilità sociale, mentre in quanto meccanismo coatto non gli spetta quella validità oggettiva che esso pretende nel contesto effettuale della motivazione psicologica, ripete e consolida all’interno della psicologia quelle irrazionalità che si vantava di «eliminare». T. W. Adorno, Dialettica negativa, 245, Milano, 2004.

 

[8]              Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito, p. 34, Milano, 2006.

[9] Estetica della Luce, 2009, inedito.

[10]           Pierre Rouve, Turner, op. cit. p. 14. Da questo punto, si utilizzeranno solo le iniziali e le pagine corrispondenti.

[11]              Precedentemente esposto, a proposito della teoria quantistica, la quale, certamente non poteva essere conosciuta da Turner, ma egli l’ ha anticipato pittoricamente e, fisicamente intuita!

[12]            Per l’occasione compose una poesia per illustrare maggiormente il dipinto e che possiamo intitolare La libertà in catene, giacché tratta dell’eroe gallese, Owen Docs,  morto dopo una lunga prigionia, personaggio mitico di cui non si conosce nulla, scelto da Turner proprio per questo motivo, perché emblematico del problema dell’attribuzione di una identità, alla fine non rilevante: Com’è strano il silenzio del mondo rimasto vuoto/dove la natura innalza le montagne al cielo/in maestosa solitudine/Guardate la torre dove il povero Owen/a lungo imprigionato/ha sospirato e desiderato la libertà/ma invano.

[13]            E se ci fosse un modo per vedere attraverso infiniti occhi, conservando le visioni chiare e nitide?  Non sono forse le opere d’arte specchi senza fine di ciò che vediamo di più elevato? Francesco S. Mosca, Aforisma N.61.

 

[14]             Jaques Derrida su un simile procedimento fonderà la sua filosofia della decostruzione.

 

[15]             La coscienza intellettuale. Faccio sempre di nuovo la stessa esperienza e sempre di nuovo mi ribello ad essa: non voglio crederci, benché lo palpi con mano: manca ai più la coscienza intellettuale; anzi spesso ho avuto quasi l’impressione che se si esige una tale coscienza, si finisce per essere soli nelle più popolose città, come nel deserto. Friedrich Nietzsche, Idilli di Messina, in: La Gaia Scienza e scelta di frammenti postumi, 1881-1882, p. 39, Milano, 1971.

[16]             Pierre Rouve, Turner, p. 187, op. cit.

[17]             A. Breton, Manifesti del Surrealismo, Torino, 1966, p. 30, in I Campi magnetici, p. 7, Roma, 1977.

[18]             Citazioni da: Ludovico Geymonat, Storia della filosofia, V. III, pp. 37-42, Milano, 1979.

 

[19]             Edimburgo 13. 06. 1831-Cambridge 05. 11. 1874.

 

[20]              E. Lévinas, op. cit., p. 34.

[21]             Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, p. 80, Milano, 1980.

[22]             Il passaggio è così bello e merita d’essere riportato per intero: «[La scrittura del sogno] lavora certo con una massa di elementi codificati nel corso di una storia individuale o collettiva. Ma, nelle sue operazioni, nel suo lessico e nella sua sintassi, un residuo idiomatico, che deve portare tutto il peso dell’interpretazione, nella comunicazione tra inconsci, appare irriducibile. Il sognatore inventa la sua propria grammatica». Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, p. 270, Milano, 2010 (la traduzione citata in Filmcritica, è del 1971). Per correttezza aggiungo che l’Artista, art director, di una nota casa editrice, ha emesso il giudizio senza vedere i miei dipinti, ma solo le foto e nemmeno di ottima qualità.

[23]             La lingua che parla di se stessa.

[24]             M. Perniola, op. cit. p. 12.

[25]             In: J. Derrida, La scrittura e la differenza, cap. VII: Freud e la scena della scrittura, p. 291, op. cit. Miei i corsivi. Nell’opinione comune e dominante, il compromesso è considerato come un ripiego, una resa, quasi un disonore, poiché esalta il concetto del Tutto o Niente, della vittoria, del campione e dell’eroe, premiato alla fine della lotta, ma si guarda bene dal far capire che la gara, fin dall’inizio è truccata, e “vince” solo chi accetta le regole delle oligarchie e ad esse si sottomette, concetti espressi in Introduzione al pensiero obliquo, 2002-2013.

[26]             Carl GustavJung, Sogni, ricordi, riflessioni, p. 273, Milano, 1998.

[27]             C. G. Jung, Sogni, ricordi, riflessioni, op. cit. pp. 284-5

[28] Max Horkheimer – Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 49, Torino, 2010.

 

[29]             Perché rileggo sempre gli stessi libri, pur avendone, diversi ancora nel cellophane? Perché ho molte tele arrotolate da più di vent’anni?

 

[30]             Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Vallecchi, Firenze, 1947, p. 23, in Salvatore Lo Bue, Il Fiore Azzurro, FrancoAngeli, Milano, 2006, p. 37.

[31]             Arthur Schopenhauer, L’arte di essere felici, p. 77, Milano, 1977.

[32]             Considerazioni, che per me, sono di fondamentale importanza.

[33]             Vorrei che fosse chiaro un pensiero cui fa riferimento il discorso centrale della mia ricerca, e cioè il principio in base al quale non si possono spiegare i meccanismi della mente, se non si tiene presente la dinamica dell’inconscio, quella onirica e gli stati intermedi (o istanze, livelli, sistemi, circuiti, moduli, strutture, reti neuronali aperte/chiuse, e le impalcature che contribuiscono a formare il cervello, chiaramente senza correre il rischio di scambiare le impalcature per i prodotti stessi della mente, altrimenti si cade nell’errore di ritenere più importante il sostegno, necessario alla costruzione, che non l’edificio stesso). Stati che devono intendersi anche in senso temporale, in base alla crescita dell’organo cerebrale e quindi alla conseguente dilatazione spaziale, la quale non può non coinvolgere gli aspetti quantitativi e qualitativi. Di conseguenza avviene una continua modifica delle coordinate di una sempre nuova “geografia logica dei concetti mentali” (G. Ryle, 1971) che stimola una crescita dei concetti fantastici e un punto di incontro con le scienze matematiche, a cominciare dalla prospettiva rinascimentale, la cui parabola esponenziale arriva fino alle prospettive multiple di Escher e alla rappresentazione dello spazio iperbolico, libero dai limiti della gravitazione, dalla rigida, assoluta linearità verticale-orizzontale e permette la rappresentazione di una modularità spaziale progressiva e infinita.  Si veda Introduzione al pensiero obliquo, p. 105, autoprodotto con Gruppo Editoriale L’Espresso, Ilmiolibro.it.

[34]             Questi, ed altri testi, sono oggetto di studio per: Arte Scienza Etica, un lavoro per il momento congelato in una parentesi temporale, che prima o poi si aprirà in libro, spero, ricco di illustrazioni.

[35]             M. Perniola, L’estetica contemporanea, op. cit., p. 141.

[36]             Nel dipinto Il ponte la Diagonale dell’acqua taglia l’immagine in due parti simmetriche attraversate dal ponte, passaggio obbligato per accedere alle verità dell’arte, verità che possono essere scoperte interiormente come il più prezioso dei tesori e solo per intuito, non per logica. La Linea obliqua avvicina lo spazio, condensa i significati, introduce un elemento dinamico, porta in primo piano ciò che è trasversale e apparentemente non rilevante. Per questo la Diagonale può essere considerata come il simbolo stesso del Sogno. Simbolo che emerge in quasi tutte le mie opere come ne Il sogno di Mercurio (1997-1998), dove possiede il significato della sintesi poetica e della riunificazione di tutti i più alti valori dell’essere umano. È un paesaggio dell’anima, dove l’essenza della natura è racchiusa nei corpi, levigati come statue di carne, sensuali come le divinità dell’amore. La continuità dall’antico al moderno è tutta nella Diagonale[36] della gamba di Venere, la quale prosegue idealmente e fisicamente in quella di Mercurio, come una linea Ideale della trasmissione dei valori dal piano storico-concettuale a quello, della vita, della materialità, dell’agire, dell’esistenza fisica nella felicità sensibile ed emozionale dell’estasi. Inserto: Paesaggi dell’anima, p. 4, 2000. Per la visione dei dipinti, si rimanda al mio sito: Francesco Mosca. Jimdo. Com.

 

                Le divergenze che hanno caratterizzato lo sviluppo dell’arte moderna, sintetizzato dallo scontro Chagall-Malevic, si ripresentano nel rapporto Mondrian- Van Doesburg, dove compare quel sottile veleno della linea obliqua, causa della loro rottura  e la fine dell’esperienza De Stijl, una tra le più importanti dell’arte contemporanea. Scritti sull’arte, p. 39, 2000, autoprodotto.

[37]        Le citazioni sono tratte da un articolo pubblicato su il Venerdì di Repubblica, nel settembre del 2012, dal titolo: Come è bello il mio cervello.

 

[38]          M. Perniola, p. 235, op. cit.

[39]        M. Perniola, pp. 235-6, op. cit.

 

[40]         Giulio Maira, art. cit.

[41]      Joe Dante ha realizzato un rifacimento dal titolo: Salto nel buio, 1987.

 

[42]      Giulio Maira, art. cit.

 

[43]             La visione sociale sarà ulteriormente corretta da K. Marx ed F. Engels, i quali ricondurranno le ideologie borghesi (sovrastrutture) nel loro autentico settore della politica (menzogna) e quindi dell’economia (verità).

[44]             È un altro motivo per il quale l’arte è stata condannata.

[45] Uso la maiuscola in segno di riconoscenza, poiché è a partire da questo breve articolo, scritto in occasione della mostra, che ho iniziato a prendere coscienza della sua enorme importanza, in seguito estesa nel volume: Introduzione al pensiero obliquo, (2002), purtroppo ancora inedito.

[46]Wassily Kandinsky Lo spirituale nell’arte, p.65, 1998, Milano.

[47] Jean Starobinski, L’occhio vivente, p. 285, Torino, 1975.

[48] Federico Faruffini (Sesto San Giovanni 18 agosto 1833- Perugia 15 dicembre 1869), morì suicida perché non riusciva a vivere di pittura. La sua storia l’ho in parte narrata, trasfigurandola nel romanzo Sulle acque scure dei Navigli (1997), inedito.

[49] Hegel, Scienza della logica, p. 71, Laterza, 1978.

[50] Argan, op. cit., p. 565.

[51]             Jean Chevalietr – Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, p. 43, Milano, 1999.

[52]             Lehman Brothers, 16 settembre 2008, Bank of Clark County, National Bank of Commerce- 16 gennaio 2009, solo per citarne alcune, ma sono centinaia, a cui si deve aggiungere l’indotto e le migliaia di altre imprese e industrie fatte fallire in tutto il mondo.

[53]             Max Horkheimer-Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, op. cit., pp. 49-50, Milano, 2000. Miei i corsivi. Si ricorda che il testo è stato composto in America nel 1944.

 

 

 

 

FRANCESCO S. MOSCA

 

 

 

 

 

 

CATALOGO D’ARTE E FILOSOFIA

 

LIBRO TERZO

 

PAESAGGI DELL’IO DELL’ES NON DEL SUPER IO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTENUTI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SCARTI     

 

LEGGERE LA REALTÀ          

 

LE MODIFICAZIONI DELL’IO          

 

METAMORFOSI (Racconto)     

 

L’ESTETICA È NEL MIO CERVELLO        

 

APPENDICE I: PAESAGGI DELL’ANIMA (2000-2014)

 

APPENDICE II: RAZIONALISMO E IRRAZIONALISMO – da: Scritti sull’arte (2000)

 

IN-CATALOG(ABILE)

 

TECNICHE E DIMENSIONI    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo spazio è l’estensione della mia immaginazione.

Henri Matisse

 

 

 

 

 

Le immagini riprodotte proseguono la serie a olio dal titolo: Paludi,[1] dove “sperimentavo” costruzioni di quadri senza disegni preliminari, lasciando che il colore “cercasse da solo” le spontanee associazioni di forme e toni, in modo che le figure (alberi, rocce, piante, ecc.) si costruissero, quasi senza alcun intervento, così da ridurre al minimo l’azione della coscienza, modellata dal Super Io, ho utilizzato, cioè il metodo per l’astrattismo in punta di pennello, così da ottenere immagini significate, attraverso segni sprovvisti, in un primo momento, di significati, quel che P. Rouve denomina ottemi, basandoli sulla fonetica e sulla linguistica di Roman Jacobson, e che, inseriti in nuove strutture visive, non prestabilite, formano composizioni non mimetiche della natura, procedimento pressoché simile a quello di Turner, il quale rimuove il Significato dall’imperialismo dello schema precodificato (società borghese) e liberandolo, oltre a produrre quadri mai visti, costruisce la sua grammatica personale,[2] quella che Leonardo aveva visto, trecentocinquant’anni prima, in potenza, sulle macchie dei muri, come stimolo per la realizzazione di dipinti complessi. Se ne dovranno attendere altri centocinquanta, affinché possa acquisire il valore conoscitivo che gli compete e la dignità di lingua d’arte, universalmente condivisa, anche se molti artisti relegheranno l’astrattismo nella sotto-dimensione di arte facile, non dello stesso valore di un dipinto disegnato (pregiudizio che persevera, stranamente, in un sistema nel quale coesistono la morte della pittura e la sua massima fioritura, nonostante i dipinti di J. Pollock, vengano acquistati a cifre da capogiro).[3] Questo spiega l’inserimento (anche se a prima vista abbozzati) di personaggi nei paesaggi di Turner, giudicati dai contemporanei “mal eseguiti”, e che ai nostri giorni, e con V. Kandinskij, sono spariti del tutto, permettendo a ognuno di costruirsi i propri dipinti.[4] In Battello di negrieri (1840, Museum of Fine Arts, Boston), le catene sono sospese, galleggiano sull’acqua, è un dipinto, sul quale Turner aveva riposto molte speranze, realizzato con particolare cura e amore, confidando che il pubblico e la critica si commuovessero come lui (aveva persino pianto nell’eseguirlo), invece si rivelò un insuccesso. L’episodio è sintomatico di una condizione ancora esistente nella dimensione sociale, politica, economica e che ai nostri giorni assume un valore di manifesto premonitore dei tempi che viviamo e che verranno. Anche la mia serie denominata Paludi fa parte dei paesaggi dell’Io come tutto quel che ho prodotto, e di cui ho scritto in precedenza, soprattutto nel testo Paesaggi dell’anima (2000), dove trattavo sui primi artisti che hanno iniziato a comprendere le grandi caratteristiche del paesaggio, non più considerato come tema secondario in cui inserire i personaggi, valenze che cominceranno ad acquisire piena autonomia nel Settecento, specialmente quando le istanze confluiranno inaspettatamente in Turner, dopo un secolo di dibattiti, iniziati con l’illuminismo e proseguiti ai nostri giorni, dove non c’è più discussione.

Il termine “anima”, non compare più nei miei testi, anche se deriva da animale, si è sovracaricato di falsi significati e adesso è troppo logoro e mi dà fastidio, come religione, metafisica, spirito, essenza, poesia, cuore, cultura e tutto il repertorio, storicamente compromesso da secoli di dominio, utilizzato per legittimare la supremazia degli oligarchi (Super Io), simboleggiati da quelle catene, che continuano a galleggiare nel dipinto di Turner (mentre affondano, a milioni, i disperati che tentano di sopravvivere). Ad un tratto, i magnifici disegni faunistici, i superbi acquerelli, le grandiose tele, sparirono per far posto a “macchie da imbianchino”, lasciando i critici con “l’amaro in bocca”, presto riempita da riprovevoli giudizi nei suoi confronti. Perché? Semplice. Il suo cervello era andato parecchi anni avanti. Ma nemmeno si può affermare che la sua arte esplora un sistema incoerente, perché “stilisticamente differente”, poiché sarebbe entrato nel circuito di un qualsiasi altro sistema, suggerendo obblighi non richiesti; e neppure si vuole smettere di dipingere, o meglio, fare arte (l’alternativa è di trasformarsi in un barbone, che è pur sempre l’unione d’arte e filosofia, risalente agli antichi Cinici, ma non è nel mio stile, né in quello di Turner). Incoerenze, contraddizioni, opposizioni, contrasti, differenze, possibilità, scelte, aderenze, fedeltà, limiti, e simili distinzioni, nell’inconscio non hanno significato, se non in funzione di censure, privazioni, sofferenze, torture, morte che uccide, persino l’ultimo lembo speranza: è l’esatto contrario dell’Origine del colore in Turner, dell’Origine della vita in Courbet e dell’Origine dell’universo in me. Per noi, l’arte è vita, ed essa non ammette contraddizioni.[5] Secondo C. G. Jung, la vita cosciente costituisce solo l’uno per certo dell’attività mentale e Turner gli dà pienamente ragione, addirittura P. Rouve scrive: «È un territorio vergine, e molto c’è da attendersi dalla sua esplorazione. I risultati possono essere più sorprendenti di quelli ottenuti nelle indagini sul discorso poetico: la linea di demarcazione tra ottemi e morfemi è meno rigida di quella tra fonemi e lessemi (lexemes). Lungo questi confusi confini fioriscono ambiguità espressive sconcertanti, anche se poeticamente legittime. La logica di questa illogicità è regolata da prescrizioni di retorica visiva». [6]

Contrariamente ai tempi di J. M. W.  Turner (1775-1851), oggi un artista può essere contemporaneamente figurativo, astrattista, espressionista, surrealista, materico, geometrico, scientifico, teorico, scultore, scienziato, insegnante, poeta, letterato, saggista, narratore, filosofo, seguire mille altre discipline, arricchire continuamente il proprio Io, senza che questo crei scalpore o imbarazzo, dato che si vive in una società liquida ((Zygmunt Bauman), abitata da «corpi senza organi» (Gilles Deleuze-Félix Guattari), incapaci di qualsiasi attività critica e utopica (T. W. Adorno), perché sono riusciti sistematicamente a distruggere ogni brandello di razionalità (Geörgy Lukács), “nascondendo” dietro luci ammalianti l’eclisse della ragione più evidente (Max Horkeimer), nello stesso Pianeta, dove il paesaggio si erge magnifico, imponente, immenso, sublime, minaccioso, terribile, furioso; alza onde gigantesche, spacca continenti, ingoia città intere, devasta coste paradisiache, ma… quando la natura è serena, quando il tramonto è così rosso da far dimenticare l’esistenza degli altri colori, quando l’acqua degli oceani è così cristallina da far nuotare i pesci nell’invisibile nulla, allora la non infelicità prende il sopravvento su tutte le tristezze del mondo e quella che un tempo era indicata come estasi ascetica, sostituita dalla dialettica negativa, avvolge, per un attimo, un solo istante, lungo quanto il sogno, nella consapevolezza che le Tenebre vengono sempre troppo presto (E. Lévinas).

La distinzione di Io, Es, Super Io è di comodo, artificiale, convenzionale, come la grammatica, e schemi simili, serve a facilitare la conoscenza di tutto quello che è altro da essi, pur nello stesso tempo, essendolo:  altrimenti, non esisterebbe nulla, limiti che il poeta, il filosofo e l’artista oltrepassano con le loro opere, le quali, per realizzarsi nella verità, devono superare tutti gli orizzonti, senza mai pensare di mettere da parte la grande EstEtica, l’unico faro della società umana e naturale, soprattutto ora che è divenuta estremamente complessa, ed essa, non prevede mai il Super Io, perché non c’è, né, mai esisterà una Super Bontà. Esiste solo il Bene, tutto il resto è solo una dolorosa illusione, che resta fuori dalla ricomposizione dell’IO, sulla quale emeriti studiosi hanno scritto una vasta letteratura, i cui significati perseverano a rimanere confusi tra l’Es e le sue pulsioni. È una metafora tratta dai paesaggi, in tema con il titolo e rileva quanto essi compongono il nostro essere, fenomeno che merita attenta considerazione, spesso sottovalutata o inconscia, argomento del presente lavoro, in una società dominata dal SuperEgo. [7]

 

L’IO, quindi, è il Paesaggio, separato, non diviso dal mondo, che le ideologie negative, non dialettiche, oscurano, esso non ri-trova nessun colore ed entra nella scia della nera Ombra che tutto divora, incapace d’espellere la più piccola particella di luce, nemmeno quella infinitesimale, dalla quale è nato il nostro Universo. L’Io diviso permane buco nero, attrae solo morte, e ciò non affiora mai nei miei dipinti, tutti emessi, per celebrare la vita, la sua nascita, il suo dipanarsi, oggi frenetico e parossistico, nell’artificio del labirinto schizofrenico sociale, la cui alta percentuale d’individui, si dibatte tra le onde della sopravvivenza e l’impulso all’autodistruzione, mentre nel microcosmo s’instaura la riunificazione di tutti i più alti valori, se la condizione lo permette, quel che Lévinas denomina «Casa»: intelligenza, cultura e Bontà si aprono un lungo e tortuoso percorso, il cui premio, incalcolabile, è l’equilibrio psichico, anche nelle continue modificazioni (inevitabili nel quadro panoramico della follia sociale, quindi individuale). «L’Io è identico anche nelle sue alterazioni».[8] Il paesaggio, considerato genere minore in Occidente, rivalutato quando non c’era più arte già nell’Ottocento, da Hegel sostituita con la Filosofia e le Scienze (benché in lui, il concetto di “scienza” ha un significato che per me e per Ludovico Geymonat è di “fantastico”), il paesaggio – forse, lo si scopre sempre di più adesso che comincia a svanire. È l’IO, non distinto dalla natura, concetto che i Verdi portano avanti da anni in politica tra territori devastati da ogni sostanza tossica, ma inserito soltanto nella flora e nella fauna di un concetto rivolto al Mondo agonizzante, essendo questi, l’organismo vivente che tutto contiene, poiché senza umanità non esiste universo e di conseguenza, la sua conoscenza etico-politica, dove… e qui il pensiero si smarrisce, perché …

 

… sulla struttura portante, di un Io centrale, si dirama, come infiniti fili invisibili, una miriade multicolore di relazioni esterne, che collegano tanti piccoli io tra loro e con l’esterno. Essi arricchiscono, in ogni aspetto, contemporaneamente chimico, fisico e culturale, l’Io fondamentale degli infiniti specchi dell’universo e la sua realtà più vera e profonda, espressa da Emmanuel Lévinas in Totalità e Infinito (1961), dove contrasta il predominio dell’idea di universalità, storicamente roccaforte del potere borghese, in modo di restituire centralità all’Io: «Questo libro si presenta allora come una difesa della soggettività, ma non la coglierà al livello della sua protesta puramente egoistica contro la totalità, né nella sua angoscia di fronte alla morte, ma come fondata nell’idea dell’infinito» (p. 24). Un infinito costellato di opere meravigliose, come quelle di Marx, Turner, Lévinas, Adorno, Breton, Rilke, Magritte, Hugo, Baudelaire, Castaneda, Santana, Pink Floyd, Andrea Pazienza, Moebius, L’Eternauta, … e altri il cui elenco è troppo lungo, ma bastano questi nomi a comunicare alcune linee entro le quali si è formato il mio pensiero e la mia pittura e con le quali dialogo in questi cataloghi. Ed è straordinario il numero degli io che assorbe la mente nel materializzare più di quanto riesce a contenere, in un processo che Lévinas definisce «infinizione dell’infinito», visione laica, panteistica e atea dei meccanismi psichici totali, consci e inconsci, che egli rende attuale con estrema chiarezza e semplicità, rivelando una capacità di comunicazione di rara genialità con l’espressione che «l’infinizione dell’infinito si rivela in un secondo momento, come immiizzazione della sua idea» (p. 24), la quale si materializza nell’arte dell’artista: egli è la sua opera e contemporaneamente è altro da sé. Il Paesaggio e il suo concetto illustrano ciò: l’avvenuto oltrepassamento dell’idea dell’infinito, la relazione del Medesimo con l’Altro, dove si infinizza e si vive il rapporto con l’infinito, dove l’Altro, non è solo la Persona etica, ma il mondo, l’universo; l’infinito! Ho individuato nella curvatura simbolica dello spazio multidimensionale, il senso pieno del sistema labirintico di specchi, sui quali si riflettono gli insiemi di comprensione (luce), in cui i fotoni (lessemi), attivano l’apertura di significati (rivelazioni improvvise, ma preparate dal lungo lavoro inconscio e onirico), intercettati, durante la comprensione degli altri Io, dai neuroni-segni, elementi indispensabili alla costruzione del testo e delle immagini, a cui, gli io dei codici condivisi, attribuiscono l’autorità della verità, percepita, prima, istintivamente; col ragionamento logico-poetico-filosofico nel secondo momento, se a essi, s’aggiunge l’abilità manuale, si può chiudere il cerchio e scrivere maiuscolo la o di IO.[9]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tanta fatica per costruirmi un Io, e ora devo liberarmene.

 F. S. M. Centesimo aforisma.

 

 

 

SCARTI

 

 

 

 

 

Io è nato Altro. L’artista è la sua arte.

Pierre Rouve.

 

 

 

 

 

 

 

 

Diversi paesaggi sono dipinti su tela e legno, ma altri sono su cartone preparato ad acrilico, quello stesso materiale da imballaggio, che le industrie producono a profusione per proteggere le merci, e che, una volta assolto il compito, si butta via o si ricicla, procedimento che lo toglie dal solito circuito, cui è destinato. Nel rinascimento prima dell’opera importante dell’affresco o del dipinto, si preparavano i “cartoni” sulla cui base si realizzava l’opera. Ciò mi avvicina a Turner e me lo rende ancor più vicino, i suoi lavori, per i quali, è ora famoso, venivano puntualmente scartati e catalogati come “sputi”, “saponate”, “calce da imbianchino” e il suo IO era additato come «il cattivo prodotto di un occhio malato e di una mano impazzita»[10]. Oggi, che la sensibilità culturale si è arricchita di numerosi contributi di varie discipline, prima tra altre, della critica filosofico-estetica e di una maggiore sensibilità artistica, sappiamo che i suoi dipinti erano (sono) il prodotto dei vari Io multiformi che costituiscono l’IO, e si riesce ad apprezzare composizioni che i contemporanei di Turner giudicavano «Cacatum is not pictum» (p. 14, P. R.T.), denigrandolo addirittura come un criminale, avendo giudicato, precedentemente,  la sua opera eccelsa, quando dipingeva alla maniera di John Constable (1776-1837) e di altri cento artisti borghesi, a cui veniva superficialmente accostato. Pittoricamente Turner ha anticipato una decina di movimenti artistici: dall’impressionismo/espressionismo, all’astrattismo e surrealismo, e di conseguenza, in filosofia, dall’esistenzialismo alla nuova oggettività, per non dire delle teorie della visione con accostamenti insospettabili ad occhi non allenati,[11] fino alle più recenti proposte della scienza del caos e delle neuroestetiche. Il pittore, indicato dalla maggioranza dei suoi contemporanei, come il degno rappresentante dell’Inghilterra, ammesso a ventiquattro anni alla Royal Academy [12], l’artista “camaleonte” capace d’imitare alla perfezione «Claude, Poussin, Tiziano, Rembrandt, Cozens, Cuyp, Wilkie, Loutherbourg, Wilson, Stothard, Van der Velde, Joseph, Wright of Derby» (P. R. T, p. 16), intuisce la metamorfosi continua della personalità che l’arte rende possibile (e viceversa), modifica indifferentemente ogni prodotto, fino al totale annullamento di un singolo io, per inglobarli tutti, o, almeno, quelli resi possibile in un’unica vita. [13] «Turner sceglie il mezzo più pericoloso, all’automortificazione, il “suicidio” pittorico. Dipingere come un altro non è un atto di personalizzazione ma è una doppia spersonalizzazione: l’imitatore nega se stesso ed in più elimina l’imitato. (…). Perché Turner lo scelse? È la domanda che bisogna porsi. (…). Perché era pronto ad accantonare la sua personalità? Non si allude così ad una misteriosa svalutazione del concetto di individualità? E non è forse questo un vuoto che va colmato? E se sì, da cosa? Possono le solide strutture dell’opera d’arte rendere stabile la vacillante personalità dell’artista? Le oggettive leggi visive possono legarsi alla profonda soggettività dell’artista?» (P. R. T, pp. 17-18). Libero di espandere la sua psiche sulla tela, senza quei limiti, costituiti dalla linea rigorosa che possa frenare una coscienza in continua espansione, in disegni di borghesi aspirazioni, e per non bloccarne il travaso, in oceano di pura luce, con la quale avvolgere l’umanità, Turner dilata gli orizzonti pittorici, consapevole di non venir compreso. A causa dell’impiego di linguaggi diversi, cambia semiotica all’interno della stessa lingua, pur utilizzando gli stessi segni,[14] i quali assumono significati diversi, non avvezzi, né  consoni al gusto dei suoi contemporanei, sprovvisti della decodifica, essendo egli, avanti di qualche secolo, e quindi, esponendosi alla critica di una mancanza di stile; ma è proprio quando agisce senza curarsi dello stile e dell’opinione altrui che egli crea opere d’arte di una profondità vertiginosa, comprensibili solo da pochi, dotati di una sensibilità comune alla sua, in quell’epoca, come la nostra, per certi versi, non per nulla facile. John Ruskin, Johann Heinrich Füssli, Landseer, hanno ben visto il suo grande «potere intellettuale», oltrepassando i comuni giudizi sulle evidenti abilità manuali, già espresse nelle opere del primo periodo, forse, comprendendo anche che egli aveva fondato una grammatica visiva nuova, unica, nello stesso tempo: personale e universale e per la quale bisognava attrezzarsi con strumenti culturali che saranno codificati due secoli dopo con S. Freud (1900: L’interpretazione dei sogni) e Vasilij Kandinskiy (1910:Primo acquerello astratto), dove, il ruolo del Super Io, comincia ad essere più definito, inizialmente accolto come LA SOLUZIONE a tutti i problemi sociali, rivelatosi, invece come la CAUSA di ulteriori problemi (per es. in Italia si continua ad avere montagne di problemi a causa di SUPER EGO, specchio per le allodole di una decina di milioni di elettori), non sospettando che arte, etica, politica, economia sono una cosa sola, difficoltà che continuano a permanere e che ancora mi fa considerare, per certi aspetti, barbarica la nostra epoca. Se metodologicamente l’arte è discussa con armamentari specifici che spaziano dalla linguistica a tutte le altre scienze, astronomia compresa, essa non può venire approfondita e compresa se non si tengono bene a mente le gemelle siamesi di Storia dell’arte, Estetica, Etica, Politica, Filosofia, Psicoanalisi, discipline che, evidentemente non possono venire padroneggiate da uno solo, e che richiedono la collaborazione di vari studiosi. Ma questa collaborazione non c’è (o, almeno, io non l’ho vista, anzi, permane uno stato di tutti, contro tutti) e, quindi, il desiderio di Friedrich Nietzsche di una «gaia scienza»,[15] continua a venire evaso, soprattutto nelle politiche psicosociali, dove si attuano tutti i regressi nei Paesi culturalmente arretrati e di conseguenza, abbandonati nelle mani di ogni sorta di criminalità. Turner ha scartato la sua identità, come Nietzsche, ha disfatto la sua di emerito professore di filologia, e per quest’atto temerario, ne hanno pagato, entrambi, amare e dolorose conseguenze.

 

A volte mi sento come se mi espandessi nel paesaggio e all’interno delle cose, e vivessi in ogni albero, nello sciacquio delle onde, nelle nuvole e negli animali, che vanno e vengono, nelle cose. Non vi è nulla nella torre che non sia divenuto e cresciuto nel corso dei decenni, nulla a cui non mi senta legato. Tutto vi ha la sua storia, e la mia; vi è spazio per l’infinito sotterraneo della psiche.

Carl Gustav Jung

 

 

 

 

Io sono il mio mondo. (Il microcosmo). (5.63).

V’è dunque realmente un senso, nel quale in filosofia si può parlare non psicologicamente dell’Io. L’Io entra nella filosofia perciò che «il mondo è il mio mondo». L’Io filosofico è non l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana della quale tratta la psicologia, ma il soggetto metafisico, il limite – non una parte – del mondo. (5.641).

 

Ludwig Wittgenstein.

 

 

         

(6)                                                                                                                                                   (6a)

 

 

Geniale idea di Pierre Rouve [16] di scrivere «IO» e non «Io» solo alla fine della sua analisi su Turner, dopo aver analizzato, nel più elevato linguaggio filosofico-poetico, l’iter artistico di un autore, che ha individuato nell’Io, solo una parte (e nemmeno la più fondante) della Persona. Egli muore con un altro nome, Mr. Booth (il nome è la prima identificazione, ancor prima che si possa iniziare a comprendere), in totale spregio di tutto quel che è considerata come “identità per eccellenza”, mostrando completa  inDifferenza per quelle convenzioni sociali che attribuiscono all’individuo una sola identità, il successo, la ricchezza, cioè  “valori” che ossessionano, ancora oggi e più di prima, la maggioranza, centocinquant’anni prima di S. Freud. In cosa consiste la differenza tra «Io» e «IO», si vedrà in seguito, qui è sufficiente per delimitare un punto d’arrivo (che è anche un inizio che si attua sempre circolarmente), lungo due secoli, in pittura con Turner, deflagrato con l’avvento di Internet attraverso il collegamento planetario di artisti, la visualizzazione delle loro opere, dei loro paesaggi, e di ogni sorta di “pensata”. È opportuno un paragone. L’IO è come la luce, che a volte è visibile come fotoni (corpuscoli, I. Newton, A. Eistein), altre volte come onda, flusso modulato, “sciame” (C. Huygens, J.W. Goethe), ma questa distinzione è convenzionale, perché è lo sguardo dell’osservatore che condiziona l’esistenza delle particelle, come dimostrato dall’esperimento chiamato “della doppia fenditura”, nel quale si constatò che alcuni corpuscoli non passavano, altri transitavano tutti dalla stessa fessura, se non li si guardavano. Da qui si capì che l’infinitamente piccolo segue leggi diverse da quelle del macrocosmo, e che la teoria quantistica ha bisogno di nuovi studi per capirci qualcosa; per il momento, vale l’equazione matematica dell’indeterminazione di Werner Heisenberg, il quale, insieme a Erwin Schrödinger e a Paul Dirac, elaborò la teoria dei quanti, termine utilizzato per primo da Max Planck. Quando il famoso esperimento di Thomas Yong sembrò dare ragione a Huygens, la teoria di Newton fu messa da parte e si dovette aspettare Einstein per sapere che la luce possiede una natura polimorfica, da Sheldon Lee Glashow paragonata a un avatar, che si manifesta in molte forme diverse, determinando, che tutto è fatto di luce, noi compresi.

 

È innegabile che uno dei più grandi problemi, sia costituito dalla poca conoscenza che si possiede sull’Io. Più di un secolo è trascorso dall’Interpretazione dei sogni, ma la Persona (termine che costituisce molti Io), continua a rimanere un oscuro oggetto di desiderio, altrimenti, i rapporti sociali non sarebbero così difficili, molti orribili dolori sarebbero evitati, le masse non darebbero il voto a coloro, che poi, le “tortureranno a vita” (nei Paesi più arretrati il reato di tortura non è nemmeno preso in considerazione) e in molti stati si vivrebbe con più serenità. Ciò non avviene (i libri che hanno analizzato questa condizione umana non si riescono nemmeno a contare) e tutto lascia pensare che essa persisterà ancora a lungo. Internet ha permesso ai molti IO, in parte sconosciuti o nascosti, di emergere, di essere visti a livello mondiale, saltando i circuiti ufficiali, realizzando il sogno di arte e culture universali, infinitamente diverse, moltiplicata da specchi luminosi, collegati da una rete in espansione continua, la quale autovalorizza gli IO, consentendo di comunicare la gioia effimera del contatto con persone e artisti di ogni parte del mondo. L’osservazione fa comprendere che, se non si auto-disciplina l’IO, esso si disperde in mille progetti, difficili da portare a termine; infatti, ho il presente testo da ultimare, studio che ha incrociato l’opera di Joseph Mallord William Turner, con il quale ho molto in comune, e che solo da pochi anni posso evidenziare, soprattutto dopo aver scritto Estetica della luce (2009), fondata sullo specchio, quindi dopo aver compiuto studi teorici sul colore (dopo anni di pratica), sui riflessi, l’identità e altri temi, come la costruzione dello spazio pittorico, il sogno, la percezione, la visione, che già analizzo da diverso tempo, dove il paesaggio è sempre storia scritta dall’IO, già memoria di un futuro irraggiungibile e impossibile da circoscrivere nei contorni dei nostri tempi lacerati da facce che si nascondono nell’ombra pur restando continuamente in piena luce sotto i riflettori.

 

Sulla struttura di un Io (centrale?), si dirama, come infiniti fili invisibili, una miriade multicolore di relazioni esterne, simili a tanti Altri IO, i quali, ampliano l’IO fondamentale, specchio infinito dell’universo, materico, non mai finito, finché splenderà il nostro Sole, fonte di vita del nostro pianeta, fino al suo ultimo suo respiro. Probabilmente una parte dell’umanità continuerà l’esistenza su altri luoghi, spargendo i semi dell’IO, in altre galassie. Identità dell’Io e l’Io identico si equivalgono, sovrapponendosi, accostando (si), sfumando,  perché già universo; conseguentemente quel che viene definito coscienza, svolge il compito assegnato dall’etica, altrimenti, non avendone consapevolezza, si continua a permettere alla beata oscurità di svolgere il lavoro d’ignoranza, beffando dialettiche e contraddizioni, nella cui evoluzione, il frastuono dello schianto, inevitabile conseguenza dell’urto contro l’invisibile muro del Cosmo (il cui residuo di fondo si può ancora udire), non permetterà a nessun Io, di percepire il benché minimo suono, della propria e Altrui cultura. Infatti, come si potrebbero ascoltare le soavi melodie dei colori, o vedere le fluttuazioni della Primavera (Botticelli), ondeggiare sopra i ruscelli, felici di ricevere «chiare e fresche dolci acque»?  Eco di un’utopia che non si riesce (o non si vuole) percepire più (metafora del Rumore di Fondo dell’Universo: il Big Bang è ancora in atto e non bisognerebbe farsi distrarre troppo dall’armonia della Via Lattea, o dell’Arte). L’industria culturale persevera nella distribuzione di paillettes in faccia agli spettatori, mescolando attentati con intrattenimenti a tutte le ore, nella regolarità delle rivoluzioni-involuzioni planetarie, poiché «lo spettacolo deve continuare». Chi non è avvezzo alla dialettica surrealistica, troverà il passaggio suesposto di difficile comprensione, vediamo di chiarirlo. Il tema conduttore del Surrealismo è l’accostamento di realtà distanti: più, esse sono lontane, più il risultato sarà autentico, onirico, poetico, non compromesso dalle leggi dell’oscurantismo, le quali, come storicamente dimostrato, esistono per mantenere le masse sottomesse. Normalmente questo assunto è considerato soltanto nell’ambito politico, luogo comune sul quale si sono sbizzarriti tutti gli studiosi, nel considerare separate estetica, arte e politica, ma perché, mi chiedo, lo si deve confinare nel solo ambito sociale amministrativo se esso regola, direttamente o in senso obliquo, l’universo letterario-artistico? Il continuare a restare nei recinti della logica borghese non sostiene e mantiene lo stato di degrado che avvolge le nostre società di sopravvivenza? Esso non favorisce il non dialogo tra le varie discipline che formano la Persona e tutti i problemi che riguardano gli io isolati da se stessi e dagli Altri? Cosa c’è di più distante dell’estetica dalla pittura, della filosofia dalla poesia? Eppure, se si accostano queste “immagini” lontanissime tra loro, non si otterrà quel procedimento surrealista così caro a Breton? Questo pensiero m’è venuto, dopo che ho ri-letto I campi magnetici, il primo libro autenticamente surrealistico, scritto da André Breton e Philippes Soupault, nel 1919, cinque anni prima della nascita del Surrealismo, nel cui Manifesto è possibile leggere:

 

Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere sia verbalmente sia per iscritto, sia in qualunque modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale.[17] 

 

Stanco dei saggi, senza sapere perché, ho tirato fuori dallo scaffale il libro e ho pensato. Così come Les Champs Magnétiques rimandano alla luce, anticipando il surrealismo e l’esplosione delle avanguardie, chiudendosi con l’epigrafe alla memoria di Jacques Vaché (Lorient, 7. 09. 1895, Nantes, 6. 01. 1919), suicidatosi a ventiquattro anni, così, Turner si è “suicidato” artisticamente abbandonando le tecniche pittoriche accademiche, procedimenti che ha “bruciato” insieme ai palazzi del Potere, nelle numerose versioni dei dipinti e acquerelli dell’Incendio della Camera dei Comuni (1835), legna divenuta carbone, la fine di tutto, come scritto a conclusione dei Campi magnetici, coincidenze eclatanti, per chi non crede alle coincidenze. Tutto ciò, mi fa intuire che Turner abbia visto i duecento anni di progresso e disfacimento dell’Io, prima che si verificassero ed esplodessero nei labirinti di contraddizioni che ci avviluppano caoticamente ogni giorno.

 

 

Il primo Johann Gottlieb Fichte (Rammenau 1762-Berlino 1814), ha individuato proposizioni affascinanti che compongono la sfera dell’Io, poi si è perso nella metafisica e nella religione. Ciò non toglie nessun valore alle sue geniali scoperte. «L’Io pone se stesso»; «Osserva te stesso, distogli lo sguardo da tutto ciò che ti circonda e rivolgilo nel tuo intimo… non è di qualcosa che sia fuori di te che si tratta, ma unicamente di te stesso»; «La coscienza stessa è un prodotto del primo originario atto dell’Io, del porsi dell’Io da se stesso»; «L’Io pone nell’Io il non-Io»; «L’Io oppone, nell’Io, al non-Io divisibile un Io divisibile »; «L’unica salda base di tutta la mia conoscenza è il mio dovere».[18] L’io penso cartesiano assume, qui, l’Io categorico di Kant, diventa un imperativo, senza il quale non può separarsi dall’animalità, se non prende coscienza del dovere come appartenente all’umanità, definizione rivoluzionaria, perché per Kant, tutta la scienza è vana se non è etica. Il progresso scientifico della sua epoca era sbalorditivo e continuerà inarrestabile, svelando nuove dimensioni dove l’Io modella incessantemente i propri, e altrui confini, limiti che s’assottigliano fino alla loro sparizione e con essi, anche la soggettività intima della propria Dimora, poiché attraverso il collegamento globale d’Internet, ognuno vive in una Casa di Vetro e moltiplica all’infinito l’Io, che assume, in astratto, la forma del globo terrestre. Esso è l’estensione delle opere, oggetto di riflessione in cui incontra infiniti Io che si dispiegano in ogni direzione, come reticoli di sinapsi che si prolungano oltre il tempo e lo spazio, permettendo d’accostare pittura, estetica, filosofia, poesia e qualsiasi prodotto della psiche, lontanissimi tra loro per esecuzione, contenuto e finalità, nel procedimento teorizzato da A. Breton nel Manifesto del Surrealismo (1924) e che ha plasmato la mia vita e forse quella di parecchi Altri. La conoscenza della bellezza della luce diventa anche il manuale d’iniziazione all’interpretazione dell’arte, infatti, affinché luce ed elettricità si congiungessero, sono dovuti trascorrere quasi duemila anni. Fu James Clerk Maxwell [19] a comprendere per primo che esse sono lo stesso, così com’è stato Freud a capire che Io, Super Io ed Es costituiscono le tre istanze sulle quali si forma la persona, divenendo tutt’uno,  presenti in questo libro in colori caleidoscopici, come dovrebbe essere la vera vita non mortificata dalle miserie sociali, le quali, molto spesso, prendono il posto del quadro e costituiscono l’attenzione maggiore, come se la cornice fosse più importante del dipinto che nel frattempo è sparito, volatilizzatosi nel nulla delle chiacchere senza fine, perché il vero Io è sconosciuto: tutti noi co-abitiamo con un io che non conosciamo e non sappiamo conoscere. Ma chi si ritrova in questi tristi paesaggi? Tutti quelli che non sanno leggere la realtà, coloro che non vedono nei volti, i paesaggi più belli, profondi e veri: essi delimitano continuamente lo spazio, lo scolpiscono con i loro incubi, avvolgono l’Ego nel mantello invisibile del Nulla e innalzano simulacri giganteschi della propria immagine. L’Io senza «l’Altro» e la sua umanità, non sarà mai completo, è un io che ne sancisce la sua fine, etico-morale, se non immediatamente fisica, ragiona in termini esageratamente, egoistico-personali, auto evidenziando la pochezza dei suoi istinti, confinati nel grigio del suo basso orizzonte, in un terribile processo degradante verso il quale i potenti indirizzano la massa, gli stessi contro cui Turner ha gettato via la sua identità di successo per assumerne una, nella quale: io-non io-nessun io-tutti gli io agiscono contemporaneamente in passaggi progressivi attraverso i supporti delle tele, dove sperimentava tutti gli stili, per giungere alla pura luce, dove tutto è indistinto, simile all’esplosione originaria dell’universo, inizio di tutte le nascite: ed ecco superate le divisioni!

Se per Lévinas «la filosofia è un’egologia», l’arte lo è maggiormente e con più visibilità, perché l’artista dipinge il suo Io in ogni minuscola superficie, annulla le differenze, azzera le distanze, dona il suo Io e allo stesso tempo, assume tutti gli io, tutti gli enti: la sua soggettività diviene universale, afferma, nella trascendenza, la propria dialettica, perché la forma è il contenuto, nessun dualismo è permesso, fa della sua mano, la mente con la quale dipinge.

 

L’Io è identico anche nelle sue alterazioni. Se le rappresenta e le pensa. L’identità universale nella quale l’eterogeneo può essere abbracciato ha l’ossatura di un soggetto della prima persona. Pensiero universale è un «io penso».[20]

 

Perché paesaggi dell’IO e dell’ES? e il Super Io? Non sono entità, o istanze che concernono la psiche e quindi, la sola interiorità? Il corpo, non è sempre stato considerato “materia” una “macchina” (Cartesio), sia pure, la più perfetta e meravigliosa? e il cervello, non è stato definito l’organo più potente dell’universo? La storia della filosofia, non ha fin dagli albori, tentato di risolvere il dualismo mente-corpo, empirismo-idealismo, e nella dimensione politica, l’opposizione comunismo-capitalismo? Ma siamo sicuri che si tratti di opposti? In base ai miei studi, le contraddizioni sono apparenti, persistono nel tempo contingente, il quale, viene assorbito nel fluire interno dell’evoluzione; un interiore che si manifesta nel cambiamento dialettico, con “ nuovi prodotti” sempre più tecnologici, a disposizione dei più fortunati, che ne usufruiscono con una qualità della vita che non ha eguali, se rapportati al passato. Queste considerazioni hanno una qualche relazione, con le mie illustrazioni? L’umanità ha ancora bisogno di vedere paesaggi, dopo tutta l’arte prodotta? La suddetta proposizione, il cui castrante effetto, mi ha dato (e mi dà) da pensare, la rimuovo attraverso altre riflessioni. Il Mondo ha ancora bisogno di assistere agli spettacoli? Quante materie prime, quanta energia, quanto petrolio, quanto cibo, e, soprattutto, quanto denaro viene utilizzato per realizzali? Quanto Pianeta si consuma per questi prodotti? Dopo una partita di calcio o una gara di Formula Uno, si diventa migliori? È importante divenirlo? Io stesso, utilizzando gli strumenti di comunicazione di massa, non rendo la Terra, più inquinata? Dunque, è con l’astensione, con la totale ascesi e la rinuncia al consumo, che si mantiene il mondo meno inquinato, per cui, ogni considerazione sull’utilità di godere delle bellezze della natura e dell’arte, è già viziata dall’egoismo. Ma si erge imperioso il Desiderio di comunicare con le idee che hanno formato i miei io, riversati sui fogli e sulle tele e le cui fantasie proseguono le mie interpretazioni, dove si dispiega la totalità del mio ego solitario e contemporaneamente forma il mio linguaggio, unico elemento di una differenziazione, nella nostra società massificata. Così l’Io diviene IO, dove la lettera O, maiuscola, collega la mia cultura a quella di tutti gli altri, in un cerchio, nel cui perimetro si percorrono sentieri sempre diversi, senza inizio, né fine.

 

 

 

 

Mai pensare: «Impossibile». Con la fisica quantistica e i suoi esperimenti, si è dimostrato che più particelle possono essere in due posti diversi e compiere la stessa realtà. Il micro cosmo, al momento, contraddice il macro cosmo, le leggi sembrano differenti. Scrive L. Wittgenstein: «La morte non è evento della vita. La morte non si vive. Se, per eternità, s’intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente. La nostra vita è così senza fine, come il nostro campo visivo è senza limiti. (6.4211). [21] Non il passato, né il futuro, quindi, ma solo il presente, l’attimo, il secondo, il minuto, l’ora, un giorno, né ieri, e nemmeno domani, soltanto «l’adesso», questo momento in cui scrivo pensieri su opere del passato, che in questo modo, non è più solo passato, ed è anche futuro (considerando che è il testo è per un libro futuro, il quale, può, o meno, giungere a termine), e non esiste nessuna garanzia che possa trasformarsi in evento. La critica formula dei giudizi che sono diversi dai miei e dagli altri Io (nel tempo e nello spazio differenti, anche se per Julian Barbour, il tempo di fatto, non esiste; in che modo lo spazio possa esistere senza tempo, è, per me, superiore alle mie capacità), come può non esserci nessuna critica se nessuna persona li leggerà, e tutto ciò non riguarderà minimamente il seguente prodotto in elaborazione: il fatto sarà, o non sarà compiuto. Ciò è irrilevante nella misura in cui posso continuare a sopravvivere, e con me la mia famiglia e i sei gatti (sono abituato al sovraccarico di lavoro, è sempre stato il mio destino!). Ed è solo grazie alla mia cultura che sono al riparo da invidie, gelosie, rimpianti e simili sentimenti, quando Artisti sono consumati da essi, o, quanto meno avrebbero voluto essere altro (p. es. uno scrittore voler dipingere e viceversa). IO sono quel che sono, mistico e materialista, metafisico, trascendentale, perennemente utopico, un sognatore che ha iniziato a sognare ancor prima di nascere, quando è nato il Mondo e, prima ancora, nel tempo in cui la capocchia di energia è deflagrata nel parto cosmico. Ecco perché, anche in questo catalogo, ho inserito alcuni dipinti che ho intitolato “L’origine dell’universo”. Studio per conoscere e quel che apprendo, lo riverso sulle opere, sulla personalità, sui rapporti con gli Altri, apparentemente senza un sistema unitario, specifico (cosa c’entra l’Etica con l’Estetica?), estremamente rigoroso al tema. Sarà per indole contraddittoria per quando mi scrivevano sul compito: «Fuori tema», oppure perché non riesco a stabilire rigidi confini tra quel che Altri considerano «non in linea con la tematica», o per incompetenza o chissà che altro; ma confesso di trovarmi in difficoltà, in particolare ogni volta che inizio a scrivere sulle qualità “artistiche” dei miei dipinti, per nulla considerati dai critici “importanti” (cioè, quelli che possono cambiare la vita). Uno di essi ( un autorevole artista) mi ha detto che i miei dipinti «mancano di grammatica», io mi sono ricordato di una frase di Jaques Derrida, citata in Filmcritica (Anno XXIV – N. 281, gennaio 1978), [22] vale a dire che il sognatore inventa la propria grammatica, ma evidentemente i miei sogni non hanno incontrato i suoi, e non per questo ho smesso di dipingere e continuo ad aspettare davanti al portone della Legge, simile al personaggio di Kafka, sapendo che, forse, si aprirà quando non vi potrò più entrare. Nel mentre, m’immergo ancor più in profondità negli Io, non mi curo del pensiero di chi ha decretato la “morte dell’arte e della pittura” (e ce ne sono molti: Hegel, Duchamp, Danto, …) e, di conseguenza, la mia, senza nemmeno essere nata (non riconosciuta a livello istituzionale dalle persone che dipendono dalle industrie culturali), gli aborti e i mostri che ho descritto in Paludi, lasciata incompiuta, dopo una cinquantina  di tavole, senza nessuna paura di non poter terminare l’opera. Se i filosofi, i critici, gli storici dell’arte mostrano pregiudizi (poi, bisognerebbe sapere cosa si cela dietro essi), come Arthur C. Danto, i cancelli resteranno chiusi, permettendo alla devastazione e all’autodistruzione di completare l’Opera, riportando la storia indietro, ai “tempi bui” dell’ignoranza, attaccando l’origine stessa dell’arte, il cui primo significato etimologico è: Fare, quindi, conoscenza, perché chi agisce senza sapere è esattamente un ignorante, o uno sciocco. Se poi, queste informazioni sono in grado di cambiare la società (come pensa più di qualcuno) è un discorso che riguarda soprattutto la politica, e quindi il sistema scolastico, l’educazione, gli edifici, e tutti i collegamenti con le strutture sociali.

Leggere che l’arte non è conoscenza, è veramente insopportabile, soprattutto se a scriverlo sono filosofi. In questo caso, viene da rispondere con le parole che T. W. Adorno rivolge a Kant ed Hegel, e cioè, che di arte non capivano granché, perché incappano inevitabilmente in giudizi troppo distanti dalla verità artistica, fondata sulla pratica e arricchita dalla teoria, e, si sa, quando s’invertono i tempi, i risultati si confondono, diventano sterilmente ambigui, cosparsi di malintesi, menzogne, fraintendimenti pericolosi, la cui energia, specie se profusa da autorevoli cervelli, può protrarsi per anni, secoli addirittura, evento storico che si è verificato, con impensabile puntualità fino ai nostri giorni e i cui effetti sono a conoscenza di tutti. A nulla serve coniare nuovi sostantivi, parole che, basate sul fraintendimento (o, sul nulla) avviano dibattiti improduttivi, il cui unico scopo è quello di far perdere tempo, come il termine «disturbazione» o «destituzione» da Danto usati per indicare il processo degradante, che certi «prodotti», considerati da alcuni «artisti», «opere d’arte», hanno contribuito allo sbandamento dei valori estetici, e i cui capostipite possiamo indicare in M. Duchamp, Kurt Schwitters, Francis Picabia, con le loro provocazioni, sintetizzate nello slogan: «Merde à la Beauté»; réclame raccolta da Piero Manzoni e conservata nei suoi barattoli, venduti anche a diecimila euro. Se queste operazioni avevano un significato nel periodo storico in cui sono state espresse, riproporle, adesso, sia pure infilandosi in un sacco sull’autostrada, denotano soltanto il desiderio d’escogitare «la trovata» più eclatante, quasi che la pratica dell’arte fosse una competizione, attuando la mentalità industriale che premia chi riesce a impressionare di più, non importa con quali mezzi.

 

È un continuo parlare su, e di metalinguaggio [23] con fantasmi invisibili (e per questo, visibili: non mostrarsi, non dire, non esserci è uno dei modi per apparire), che si possono intravvedere tra gli spazi vuoti delle figure dipinte, le uniche in grado di decifrare l’occulto di realtà che ci sovrasta. Come fa l’Io a leggere il Reale? Il problema che ha occupato per anni la mente di J. Derrida e a cui ha tentato di rispondere con la decostruzione è stato risolto? Il suo smontaggio l’ha reso più comunicabile? Forse a coloro, che hanno studiato greco, latino, e tutte le altre lingue più importanti, insieme alla bioingegneria, alla genetica, unite alla fisica, chimica, psicologia, psicoanalisi e mille altre discipline si sono aperte le porte della verità; oppure, il passato è rimasto una terra desolata?

 

 

 

LEGGERE LA REALTÀ

 

 

 

 

 

 

 

Il passato è sempre una terra desolata, anche se si è vissuti in paradiso, perché, se si continua a rimanere “prigionieri dei ricordi” (ossessione), non si può vedere il presente in tutta la sua profondità (che è, di per sé, infinita), e quindi si corre, inevitabilmente, il rischio di “perdere” momenti ricchi di contenuti. Si può mancare di “prontezza” e lasciarsi sfuggire occasioni importanti, che potrebbero cambiare l’intera vita, oppure, non riuscire a interpretare la “realtà” nel modo più corretto possibile e aderente ai valori del Bene, gli unici, attraverso i quali, ci si può proteggere dagli incubi, qualunque essi siano: diurni e onirici. Eppure, è opinione comune, credere che sia la conoscenza del passato, a farci acquisire quell’esperienza, che ci permette di giudicare “obbiettivamente”, in modo da ottenere un’interpretazione più vicina alla verità, quell’autenticità, che sola, permette di costruire un futuro solido, divenuto, per i più, chimerico. Ma chi sono gli uomini che lavorano per costruire un simile passato? Chi mai può continuare a vivere, distruggendo sistematicamente e a vari livelli, l’arte, le città, le buone leggi, le belle teorie, e, non vorrei, scriverlo, persino la poesia, riducendo la Totalità a una compravendita televisiva? Il passato è ancora cosparso di bombe che deflagrano silenziosamente, quasi ogni giorno. Si studia al microscopico l’osso preistorico più infinitesimale e non si riesce a conoscere i nomi degli assassini che hanno organizzato e portato a termine stragi innominabili, simili alle operazioni che si compivano nella seconda guerra mondiale; si lanciano sonde oltre l’universo visibile e non si riesce a migliorare di un centimetro il nostro Pianeta, né cambiare un secondo della nostra vita, un misero secondo, sufficiente a salvare la vita di un suicida. Se oggi, gran parte del nostro presente è composto da approssimazioni, faciloneria, ignoranza, volgarità, corruzione, violenza gratuita e mille altri mali, da dove provengono? Quale mente diabolica è riuscita a progettare un simile presente?  Come hanno fatto i peggiori criminali, a darsi appuntamento, in ogni epoca e a non mancare nessuno incontro? Tutto il male che si poteva compiere, è stato fatto, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, quello ancora più grande è stato immaginato dalla fantascienza, il disastro totale lo realizzerà l’universo tra qualche anno, perché, ed è la logica a suggerirlo, nel frattempo non si possono vivere giorni più lieti?

 

Si può riuscire a fare del mondo, non una terra desolata, ma un luogo dove costruire un futuro, degno di questo nome, soltanto conoscendo se stessi, ma si preferisce infilare la testa in un sacco e attraversare l’autostrada; forse, sperando che qualche auto, non spiaccichi sull’asfalto il nostro Io. Oppure sì? È un po’, la situazione che è stata creata, da coloro che hanno progettato questo sistema sociale (ricordiamoci che sono fior fiori di geni, i quali non ragionano per obiettivi a breve e medio termine, bensì per intere ere, glaciali; appunto! nulla deve cambiare, in modo d’assicurare un futuro alle proprie discendenze fino alla fine del mondo) e che Perniola rileva subito nella sua premessa: «Da un lato nulla è più ingannevole, fragile e tendenzioso quanto la cassa di risonanza dei media, dall’altro proprio alcuni aspetti della vita culturale attuale (la sovrabbondanza, della produzione libraria, la molteplicità delle lingue e dei contesti, la disattenzione generale) rendono ignoti anche agli specialisti tante opere e autori meritevoli di essere letti e discussi». [24] Società liquida (Zygmunt Bauman) e morti liquidi dell’Attesa, dello Scarto, senza nemmeno sapere di valere qualcosa, per cui, è nell’Io stesso, che l’Autore si deve “convincere” della propria validità, esperienza che del resto, hanno già fatto tanti, su cui, la Storia dell’Arte ha scritto pagine di grande bellezza e commozione, le quali, ancora oggi splendono sulle spoglie lapidi dei fratelli Van Gogh. Chiunque decida di scegliersi questo lavoro, lo deve mettere in conto e non piangersi addosso, né smettere di cercare in se stessi la linfa necessaria a far sbocciare i germogli, ché la primavera viene per tutti, ma, credetemi!, le ceneri di un cadavere, non li hanno mai visti, né saprebbero che farsene. Ed è solo grazie alla nutrimento degli Altri IO, che ci si può autoalimentare, naturalmente, se si potranno comprare i loro, fortunati, libri. Ma ora c’è Internet! Che scorpacciata di tutto: musica, pittura, libri… 

 

Nello stesso libro di Derrida, ho letto un’osservazione, quasi espressa incidentalmente e in nota, a proposito del lavoro onirico di Freud: «…Sul Denkaufschub, sul pensiero come effetto ritardato, aggiornamento, proroga, tregua, perifrasi, differenza opposta a, o meglio differente dal polo fittizio, teorico, e già sempre trasgredito del “processo primario”, cfr. tutto il capitolo VII (V) della Interpretazione dei sogni. Il concetto di “procedimento deviato” o ” via indiretta” (Umweg) in esso è centrale. L’”identità di pensiero”, tutta intessuta di ricordo, è l’obiettivo già da sempre sostituito ad una “identità di percezione”, obiettivo del “processo primario” e das ganze Denken ist nur ein Umweg… (“l’intero atto del pensare è soltanto una via indiretta”: cfr. GW, II/III, p. 607 [L’interpretazione dei sogni cit., p. 548]. Cfr. anche “Umwege zum Tode”, in Al di là del principio del piacere. Il “compromesso”, nel senso di Freud, è sempre differenza. Ora, non c’è nulla prima del compromesso». [25]

 

I due dipinti in questa pagina sono ri-composti in una unità che nella realtà non esiste, i quadretti ora appartengono ad altri Io, essi continuano a “vivere” separatamente in abitazioni differenti; il mio IO, producendoli in tempi diversi, continua idealmente la sua unità con questo lavoro, esso raccoglie gli innumerevoli Io e li archivia, divertendosi a ri-unire quello che nel passato era diviso. Come si può realizzare in uno stesso dipinto, in cui ho illustrato molti temi e soggetti che occupano la mia attuale ricerca, dove ri-compongo un Io Ideale nell’Ideal-dell’IO, proveniente direttamente dall’inconscio più antico e profondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE MODIFICAZIONI DELL’IO

 

 

 

Cerco di fare arte con la scrittura (che presunzione!),

dipingere è diventato maledettamente complicato.

 E…poi, quale “grammatica”, dovrei usare?

Qualcuno si è dimenticato di dirmelo.

Nel mentre, le uso tutte.

 

 

 

«A volte mi sento come se mi espandessi nel paesaggio e all’interno delle cose, e vivessi in ogni albero, nello sciacquio delle onde, nelle nuvole e negli animali, che vanno e vengono, nelle cose. Non vi è nulla nella torre che non sia divenuto e cresciuto nel corso dei decenni, nulla a cui non mi senta legato. Tutto vi ha la sua storia, e la mia; vi è spazio per l’infinito sotterraneo della psiche».[26]

 

La durezza del mondo mi è inconcepibile. L’arte permette - di tanto in tanto – di possedere una delicata sensibilità, sufficiente a farmi sprofondare nelle cose, per meglio immergermi in me stesso e ritrovare l’autenticità del mio essere, in corrispondenza armonica con le bellezze del mondo, al punto che la parvenza cessa di essere soltanto parvenza, e diventa una via, un passaggio e una porta per accedere nell’ al di là della materia, in modo da ritrovare finalmente l’espressione della mia più alta “spiritualità” profana. È un mondo in cui si possono vivere soltanto sensazioni appena percettibili, che a stento hanno qualcosa in comune con la sostanza, tanto da non riuscire a capire come dalla solidità della carne, possano scaturire sensazioni così intense e delicate. Riuscire a penetrare in questo mondo, vedere i pensieri che gli appartengono come oggetti di una riflessione capace di trasfigurarmi non è facile e come ciò possa accadere è per me un mistero (Aforisma N. 59, 2009). Questo sentire è, ormai, un bel ricordo, una terra desolata, in cui nuovi germi attecchiscono continuamente e germogliano in un groviglio inestricabile, che mi allontana, sempre più, dalla pittura, ma non dallo scrivere, una forma d’espressione, di cui l’altro Io, non prova nessuna concorrenza, e lo asseconda pazientemente, in attesa di qualcosa, senza aspettare nulla, sempre lieto d’incontrare pensieri, sentimenti, sensazioni provate da altri Io, con i quali dialoga nella lingua silenziosa del pensiero.

 Fondamentale è la condizione psicologica dell’istante vissuto pienamente, quello che l’opera d’arte più felice riesce a materializzare, la quale può assumere tutte le forme, anche quella di un sorriso o del pensiero più elevato, la cui scia o traccia, attraversa i secoli per giungere fino alle coscienze viventi ed è ri-trasmessa alle generazioni future, oltre il transitorio, oltre l’effimero che tutto distrugge, quando nell’ebrezza ogni persona è artista e nel sogno genera capolavori: inebriati di luce, abbandoniamo oblio e miseria e nell’istante che è appena passato, viviamo quel che filosofi e artisti chiamano la vera vita!

 

… dunque, ho scritto “il passato è sempre una terra desolata, anche se si è vissuti in paradiso” e non avevo la benché minima idea di cosa potesse significare, né il motivo del perché l’avessi scritto. È emersa alla mente “da sola”, dandomi da pensare, poiché considero fondamentale il passato, la storia, i ricordi, l’esperienza per la formazione degli Io e quindi la consideravo una contraddizione, a cui ho risposto con le argomentazioni suesposte. Poi, durante la rilettura del libro di C. G. Jung, mi sono “imbattuto” nel seguente brano.

 

Le nostre anime, come i nostri corpi, sono composte di elementi individuali che erano già presenti nella catena dei nostri antenati. La «novità» della psiche individuale è una combinazione variata all’infinito di componenti antichissimi. Il corpo e l’anima hanno perciò un carattere eminentemente storico e non si trovano a loro agio in ciò che è appena sorto, vale a dire, i tratti ancestrali si trovano solo in parte a casa loro. Siamo ben lungi dall’aver lasciato dietro di noi il medioevo, l’antichità classica e l’età primitiva, così come pretenderebbe la nostra psiche. Siamo invece precipitati nella fiumana di un progresso che ci proietta verso il futuro con una violenza sempre maggiore quanto più ci strappa dalle nostre radici. Ma se si apre una breccia nel passato esso per lo più crolla, e non c’è più nulla che trattenga. Ma è proprio la perdita di questo legame, la mancanza di ogni radice, che genera tale «disagio della civiltà» e tale fretta che si finisce per vivere più nel futuro e nelle sue chimeriche promesse di un un’età dell’oro che nel presente, a cui del resto la nostra intima evoluzione storica non è neppure arrivata. Ci precipitiamo sfrenatamente verso il nuovo, spinti da un crescente senso di insufficienza, di insoddisfazione, di irrequietezza. Non viviamo più di ciò che possediamo, ma di promesse, non viviamo più nella luce del presente, ma nell’oscurità del futuro, in cui attendiamo la vera aurora. Ci rifiutiamo di riconoscere che il meglio si può ottenere solo a prezzo del peggio. La speranza di una libertà più grande è distrutta dalla crescente schiavitù allo stato, per non parlare degli spaventosi pericoli ai quali ci espongono le più brillanti scoperte della scienza. Quanto meno capiamo che cosa cercavano i nostri padri e i nostri antenati, tanto meno capiamo noi stessi, e ci adoperiamo con tutte le nostre forze per privare sempre più l’individuo delle sue radici e dei suoi istinti, così che diventa una particella della massa, e segue solo ciò che Nietzsche chiama la «spirito di gravità. I miglioramenti che si realizzano col progresso, e cioè con i nuovi metodi o dispositivi, hanno una forza di persuasione immediata, ma col tempo si rivelano di dubbio esito e in ogni caso sono pagati a caro prezzo. In nessun modo contribuiscono ad accrescere l’appagamento, la contentezza, o la felicità dell’umanità nel suo insieme. Per lo più sono addolcimenti fallaci dell’esistenza, come le comunicazioni più veloci che accelerano il ritmo della vita e ci lasciano con meno tempo a disposizione di quanto non ne avessimo prima. Omnis festinatio ex parte diaboli est: tutta la fretta viene dal diavolo, come erano soliti dire i vecchi maestri. Le riforme che si realizzano col ritorno al passato, invece, sono di regola meno costose e inoltre più durature, perché esse ci riportano alle più semplici e provate vie del passato, e richiedono il più parsimonioso uso di giornali, radio e televisione, e di tutte le novità che si pensa ci facciano guadagnar tempo. [27]

 

L'attività, che si può far risalire al Romanticismo, è all'insegna del frammento, come opera fine a stessa, riflesso dell'interesse senza interesse, antitetico al sistema capitalistico, senza che quest'enormità scandalizzi nessuno, allorché si considera che l'industria culturale può fare a meno di chiunque, come qualsiasi altra industria, completamente automatizzata: Moltiplicando la violenza attraverso la mediazione del mercato, l'economia borghese ha moltiplicato anche i propri beni e le proprie forze al punto che non c'è più bisogno, per amministrarle, non solo dei re, ma neppure dei borghesi: semplicemente di tutti. Essi apprendono dal potere delle cose, a fare a meno del potere . » [28]

 

 

 

 

 

Il mio IO, modificato nel corso degli anni, che mi separano dalla prima lettura, me l’ha fatto re-incontrare, dopo che l’inconscio aveva fatto emergere l’aforisma: “il passato è sempre una terra desolata, anche se si è vissuti in paradiso”, avendone, inizialmente, un’interpretazione confusa, che le parole di Jung, hanno dissipato con chiarezza ed eleganza letteraria più che notevoli: uno splendore alchemico-magico.[29] Quindi, l’Io è un mosaico i cui tasselli non vanno mai a posto, non completano mai il quadro, e deve accontentarsi dei frammenti che riesce a incasellare dentro il proprio IO, il quale, contemporaneamente e sempre, tra gli iato, gli spazi vuoti, lasciati dai fantasmi, cresce la pianta dell’Ombra Nera, la MalaErba che inquina la mente, la distoglie da se stessa e la conduce alla rovina; la sua e quella di coloro che gli sono vicini, perché, se Jung rivaluta intelligentemente l’Ombra (che deve sempre essere conosciuta benissimo per non divenirne preda), la conoscenza della Luce continua a rimanere latente, nascosta alla maggioranza, per evidenti finalità politiche, così che il suo opposto, perfettamente simmetrico, possa continuare a svolgere il lavoro, al riparo da qualsiasi rivoluzione (come testimonia la Storia) e l’individuo può continuare a naufragare nell’oceano della “beata ignoranza”, in quel mare di confusione, nel quale, nemmeno il dubbio, può divenire unica certezza, come accade in Italia, un’Italia già scheletrica, sodomizzata da mille falli di plastica e d’idiozia, nell’incosciente allegria di baccanali laziali, dove già è anticipata la memoria apocalittica del futuro.

 

Cerchiamo di chiarire questo fosco paesaggio, sul quale, R. M. Rilke, nei primi anni venti, aveva smitizzato il concetto affettivo con l’espressione di non voler essere amato, nei famosi Quaderni di Malte Laurids Brigge, prosa poetica e autobiografica, letto a vent’anni, comprato per 1800 lire nella poetica traduzione di Vincenzo Errante, in edizione cartonata Utet, libro di formazione, che ho ritrovato ampiamente citato in un altro meraviglioso testo di S. Lo Bue, Il Fiore Azzurro, nel quale ho letto questa citazione:

         

Poi che tutto è portare a termine e generare. Lasciar compiersi ogni impressione e ogni germe di un sentimento dentro di sé, nel buio, nell’indicibile, nell’inconscio irraggiungibile alla propria ragione, e attendere con profonda umiltà e pazienza l’ora del parto di una nuova chiarezza: questo solo si chiama vivere d’artista: nel comprendere come nel creare. Qui non si misura il tempo, qui non vale alcun termine e dieci anni son nulla. Essere artisti vuol dire: non calcolare e contare; maturare come l’albero, che non incalza i suoi succhi e sta sereno nelle tempeste di primavera senza apprensione che l’estate non possa venire. Ché l’estate viene. Ma viene solo ai pazienti, che attendono e stanno come se l’eternità giacesse avanti a loro, tanto sono tranquilli e vasti e sgombri d’ansia. Io imparo ogni giorno, l’imparo tra dolori, cui sono riconoscente: pazienza è tutto! [30]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’arte è anche conoscenza indiretta. Se voglio sapere come funziona e che cos’è la luce che rende visibili i colori, mi rivolgo alla fisica, alla chimica; se desidero apprendere i meccanismi della percezione, consulto la psicologia; se ho interesse a scoprire quali sono le conseguenze di certe azioni che le immagini producono su gruppi, più o meno, estesi, eterogeni, di età differente, se visitano musei, quanto tempo dedicano alla visione dei dipinti, ecc., la sociologia mi dà le risposte e a ben riflettere, l’arte si trova sempre al centro delle attività, sia umane che animali, dato che è il pavone che fa la ruota più bella, possiede le penne più brillanti, e si assicura il successo sessuale, anche col rischio di venire catturato, in spregio della difesa offerta dal mimetismo (questo e altri fenomeni del regno animale, dovrebbe far riflettere molto). La super valutazione attribuita alla filosofia, come sola disciplina della conoscenza (artistica, in questo caso), trova una giustificazione se essa include tutte le altre, per cui si può verificare il paradosso del pittore che per amore della conoscenza non trova più il tempo per la pittura:

         

          «Ciò che nei nostri progetti di vita trascuriamo più spesso, quasi di necessità, sono le trasformazioni che il tempo produce in noi stessi; ne deriva che molto spesso miriamo a cose che, quando alla fine le raggiungiamo, non ci si adattano più, oppure passiamo gli anni con i lavori preparatori a un’opera, i quali, senza che ce ne accorgiamo, ci sottraggono nel contempo le forze per l’opera in quanto tale». [31]

 

Nel panorama dell’estetica internazionale offerto da Perniola, sono presenti domande che rendono la comprensione dell’arte particolarmente penetrante ai non specialisti, proprio perché il linguaggio utilizzato è teso ad attrarre il maggior numero di persone, anche chi non ha particolari interessi artistici, e non è vicino a problemi che solo apparentemente non riguardano il mondo dell’arte (uno, dei più duri pregiudizi), metodo particolarmente efficace, poiché suddivide la narrazione per temi, tutti di grandissima attualità, sviluppando ogni parte con estrema chiarezza di linguaggio, al punto da far apparire semplice i concetti più difficili, senza quelle complicazioni intellettive che richiedono conoscenze e linguaggi sempre più specialistici, come quello di Derrida o di Deleuze e Guattari, per i quali bisogna attrezzarsi di enormi apparati culturali, in grado di decifrare i loro codici semantici, correndo il rischio di recludere ancor di più l’ermeneutica, nell’arduo recinto, quasi una scalata inaccessibile, dell’interpretazione solipsistica, dove, in cima alla vetta, «la filosofia finisce per trovare nell’arte solo se stessa» (Perniola, p. 85), in una spirale, che si riavvolge sempre su concetti che invece di discutere dell’Io dell’opera d’arte, dispiegano quello dell’interprete che recita il copione della propria filosofia come «autoconoscenza», mancando quello che era lo scopo iniziale «d’intendere ciò che è altro da se stessa», risolvendosi in una mancanza che il filosofo crede di vedere nell’arte, forse non pensando che, così come c’è una matematica senza numeri, così esiste una filosofia senza assiomi, costituita solo da immagini, le quali non sanno proprio che farsene delle parole. [32]

 

Questa condizione che permane da troppo tempo e che pare sia diventata patologica, l’hanno rilevata, oltre Perniola, diversi autori come Adorno, Derrida e che io ho descritto in Introduzione al pensiero obliquo,[33] è superata dalla semplice osservazione che, se si vuole immettere la propria concezione dell’arte, anche se è basata sugli studi delle conoscenze già acquisite, consolidate e condivise, si dovrebbe continuare a possedere quel distacco aperto alle nuove teorie e opere visive, senza il pregiudizio d’escludere a priori quel che non piace, ciò che si crede “sbagliato”, avendo l’accortezza di non scivolare nell’eccesso opposto d’accettare tutto senza criticità, anche perché di strumenti teorici ne sono stati forniti in quantità, dalla teoria della falsificabilità in scienza (Popper), alla decostruzione in filosofia (Derrida), alla morale di Foucault, per cui, la domanda di Perniola «di quale tipo di conoscenza è portatrice l’esperienza artistica», che non ritiene «particolarmente presente all’attenzione degli artisti e ai poeti dell’epoca moderna» (p. 84) continua nell’esperienza di quegli artisti che fanno risalire lo studio dell’arte al rinascimento, quando Alberti teorizzava sulla prospettiva scoperta da Brunelleschi, e Piero della Francesca e Paolo Uccello si smarrivano nella bellezza delle proporzioni matematiche. Gli artisti che hanno voluto proseguire l’aspetto polemico delle libertà conquistate dalle avanguardie del Novecento, con il ripetere quasi le stesse operazioni, dovrebbero venire considerati, come quei musicisti che eseguono gli stessi brani di musica classica o jazz, per i quali si paga il biglietto per assistere alle loro performance, oppure gratuitamente quando l’evento è organizzato dai comuni o altre istituzioni, in ogni caso, io preferisco le opere che estendono sempre le conoscenze, attraverso l’impiego di un linguaggio che sappia affascinarmi. Se poi le informazioni, risultano utili o meno, questo è compito di chi ha il potere di decidere, e non mi sembra che esso venga esercitato con grande apertura mentale, visto che io ancora non so se esprimo qualcosa di valore per gli Altri. Allora mi consolo con le teorie espresse da Adorno e Horkhaimer in Dialettica dell’illuminismo (1944), in Il mercato dell’arte (1973) di Karel Teige, in Produzione artistica e mercato (1975) di Francesco Poli, in modo da farmene una ragione; una ragione distrutta (György Lukács Distruzione della ragione, 1953), eclissata (Max Horkhaimer: Eclissi della ragione, 1947) e a cui si è dato l’addio da molto tempo (Paul Feyerabend: Addio alla ragione, 1987). [34]

 

Fa piacere leggere brani come questi: «Bachtin pone al centro della sua riflessione estetica il bisogno di riconoscimento provato dall’autore: l’esperienza estetica non è, come vuole Dewey, un fenomeno che trova la sua conclusione nella realizzazione dell’opera d’arte, quasi che l’autore fosse autonomo e autosufficiente. In realtà l’essere umano non riesce a completare la percezione di sé da solo, ma ha bisogno dello sguardo dell’altro: io non posso diventare me stesso senza l’azione dell’altro. (…) L’esperienza estetica presenta perciò un carattere essenzialmente dialogico: i valori di una persona dipendono dalla testimonianza e dal giudizio altrui. Senza la partecipazione altrui io sono per me stesso irreale. Perciò Bachtin rifiuta la teoria dell’empatia, che considera l’esperienza estetica come una partecipazione dell’io sulle cose: in opposizione a essa introduce il termine essotopia, che appunto designa la condizione di trovarsi al di fuori di se stessi. Il centro dell’esperienza è perciò dislocato all’esterno, nella coscienza e nel sentire dell’altro». [35] Comunque, continuare a dipingere, dopo aver letto i suddetti libri, dove viene analizzata la condizione dell’arte e le leggi di mercato, ha del temerario e dell’incoscienza, se poi, quel che ho prodotto, è valido, utile al concetto d’innovazione artistico e di quello dello stile, o forma, questo è un compito che spetta alla critica.

 

 

 

 

 

 

Ho conosciuto il pensiero di Bachtin grazie al libro di Perniola, e subito è affiorato un mio aforisma:

         

La durezza del mondo mi è inconcepibile. L’arte mi dona - di tanto in tanto – una delicata sensibilità, sufficiente a farmi sprofondare nelle cose, per meglio immergermi in me stesso e ritrovare l’autenticità del mio essere, al punto che la parvenza cessa di essere soltanto parvenza, e diventa una via, un passaggio e una porta per accedere nell’al di là della materia, in modo da vivere l’espressione della più alta “trascendenza” profana. È un mondo in cui si possono avvertire soltanto sensazioni appena percettibili, che a stento, hanno qualcosa in comune con la materia, tanto da non riuscire a comprendere come dalla solidità della carne, possano scaturire sensazioni così intense e delicate. Riuscire a penetrare in questo mondo, vedere i pensieri che gli appartengono come oggetti di riflessione non è facile e come ciò possa accadere è per me un mistero

 

È interessante sapere come un autore scrive i suoi pensieri, i quali, come ha dimostrato la psicoanalisi, giungono da molto lontano, attraverso un percorso “tortuoso”, sempre, o quasi sempre inconscio e che tale rimane per lunghi anni. Solo fortuite coincidenze, un lavoro costante d’analisi, studi che nemmeno si sa, quando veramente iniziano (senza bisogno di risalire all’alba dei tempi), concede di raggiungere quel livello di coscienza in grado di consentire il riconoscimento, in tutto il loro valore, quasi sempre, lasciato marcire nei recessi più inaccessibili della psiche, e che solo rarissimi momenti di lucidità, ammettono la scrittura, e nemmeno allora si è certi d’aver “scoperto qualcosa”, come è accaduto a Freud, il quale ha scritto che queste intuizioni, possono accadere una sola volta nella vita e a Gauss, Bolyai e Lobačevskij, quando scoprirono la geometria iperbolica, indipendentemente, l’uno dall’altro, o ancora come il calcolo infinitesimale di Newton e Leibniz. A me, in piccolo, è accaduto lo stesso episodio. Dopo aver terminato Introduzione al pensiero obliquo, rilessi testi precedenti (Scritti sull’arte testo e Paesaggi dell’anima, 2000, uno spillato, di quattro facciate, otto pagine, entrambi a colori, stampati a mie spese, dove sono emerse espressioni che hanno costituito la struttura portante dell’Introduzione), e anche fogli sparsi scritti in gioventù, nei quali ho trovato il nucleo centrale del mio pensiero, e che continua ad arricchirsi, grazie ad una maggiore consapevolezza, ricevuta dall’apporto degli autori, in sintonia con il mio modo di vedere il mondo. [36] Nel frattempo mi sono occupato di altro. Avrei voluto continuare a interessarmi del pensiero obliquo (che in questi giorni ho equiparato alla teoria quantistica, ma devo lavorarci), ma le delusioni mi hanno portato a rimuovere il tutto e a non pensarci più per non rovinarmi la salute. Dovrei avere la giornata di quarantotto ore (come minimo) per realizzare il cinque per cento di quel che mi bolle nella mente, ma ho imparato l’arte della pazienza e ciò non mi turba, se poi penso che tutta la realtà è effimera, il lettore comprenderà bene, che, se non avrò compiuto quel che costituisce il centro delle mie ricerche, il mondo continuerà a girare, compiendo regolarmente la sua orbita (sempre che un pianeta “vagabondo” non gli piombi addosso).   

 

 

 

 

METAMORFOSI

(Racconto)

 

 

Perché siamo come tronchi nella neve.

Apparentemente vi sono appoggiati, lisci, sopra,

e con una piccola scossa si dovrebbe poterli  spingere da una parte.

No, non si può, perché sono legati solidamente al terreno.

Ma guarda, anche questa è solo apparenza.

F. Kafka

 

 

 

Mi strappai il cervello, scivolai in una buca lunga quanto il corpo e aspettai che con la primavera sbocciassero i primi germogli. Li volevo bianchi e rosa, ma se fossero stati di un altro colore, non li avrei, di certo rifiutati. «Bisogna prendere ciò che la vita ci offre» ripetevano spesso i miei genitori e io li accontentavo piangendo sommessamente. Allora mi abbracciavano per unire le loro lacrime alle mie e per farsi perdonare d’avermi concesso la vita. Venne la primavera. Aspettavo con ansia che sbocciassero i teneri germogli. Fremevo d’impazienza e agitavo allegramente i rami carichi di foglie. Gli alberi vicini sembravano in festa, tanto erano pieni di boccioli colorati, la loro allegria si spandeva nell’aria ed era avvertita dagli uccelli che si libravano in alto, disegnando fantastici arabeschi tra le nuvole bianche e con i loro voli, noi toccavamo il cielo con le foglie fresche di rugiada, io soltanto ero senza fiori. Le radici si rmuovevano nervosamente, infastidendo le talpe addormentate e già prossime al risveglio. Una addentò una delle mie radici e prese a succhiarla avidamente privandomi così della preziosa linfa. Ma forse non era una talpa, e in verità, come avrei potuto sapere, di quale animale si trattava? Pensai a una talpa, ma poteva anche essere un topo, o un ghiro. Non potevo certamente immergermi con tutto il tronco sotto terra per vedere un animale che presto o tardi se ne sarebbe andato. Quindi, lo lasciai fare e con tanta pazienza aspettai. Intanto, l’incidente m’impedì di pensare al mio problema per qualche periodo, faccenda che, col trascorrere del tempo, iniziò ad assumere proporzioni inquietanti. Controllai se tutti i condotti funzionavano bene e a parte qualche radice rovinata, che sostituii quasi subito, tutto era in ordine. La constatazione mi diede un po’ di sollievo, ma ancora non riuscivo a spiegarmi come mai restassi senza germogli. La terra era ottima, ricca di sali minerali e di sostanze nutrienti, aveva piovuto in abbondanza durante l’anno e il colore splendente delle foglie lo dimostrava ampiamente. Non era questione di clorofilla né d’alimentazione. Noi piante non siamo come gli animali che possono cambiare il loro ambiente, quando se n’avverte la necessità. Dobbiamo fare molta attenzione al luogo ove immergere le nostre radici. Una scelta affrettata, poco meditata, dettata dalla necessità o condizionata dall’ambiente circostante può avere come conseguenza una crescita abnorme. Può significare un’esistenza difficile, contorta, piena di stenti e sacrifici che potrebbe condurre verso un’agonia senza limiti e poi alla morte, invocata come la pioggia nella siccità; ma anche una bella pianta, forte, rigogliosa, in splendida forma, che ha la fortuna di vivere in un bel terreno può fare una brutta fine prematura. Una tempesta, un uragano, un macigno che si stacca dal costone, un incendio che si sprigiona all’improvviso, attentano continuamente alla nostra vita. Niente è sicuro in questo mondo e non vi racconto a quanti disastri sono scampato. In fin dei conti, la mia preoccupazione attuale mi sembra ridicola e anche se non completo per il momento il mio ciclo naturale, è sempre una gran fortuna conservare per intero la corteccia. L’altra volta, per esempio, (credo sia passato un anno, o un giorno, oppure una vita intera, non ricordo bene, dato che il tempo, per me, scorre diversamente), un uomo, non so per quale oscuro motivo decise d’abbattermi. Se gli esseri umani parlassero con noi, magari soltanto per raccontarci le ragioni della nostra fine, forse moriremmo meno disperate, invece c’ignorano completamente e si rivolgono a noi solo quando ci devono abbattere selvaggiamente per i loro bisogni, spesso ingiustificati, o soltanto per crudeltà o ignoranza. Conoscendo a fondo la meschina natura degli uomini, curai di piantarmi ben lontano da loro. Scelsi un piccolo altopiano, distante molti chilometri, dal più vicino centro abitato, protetto a nord da una grande montagna ricca di foreste e aperto a sud in una grande valle, in modo da poter vedere il vasto orizzonte. Era terminato da poco un temporale sublime, come non ne vedevo da anni e le mie foglioline si agitavano liete alla brezza, per ringraziare il mondo per le cose buone che ci dona, quando dal folto della boscaglia, vidi emergere un uomo avvolto in un nero mantello, tutto zuppo di pioggia. Erano trascorsi molti e lunghi anni dall’ultima volta che vidi un essere umano e il mio nuovo stato aveva modificato i miei ricordi, al punto da cancellarli quasi totalmente. La sorpresa, fu quindi enorme, ma ancor più grande fu la paura, quando vidi che aveva una sega automatica; lo spavento divenne terrore e mi sentii perduto. Maledii d’aver perso la possibilità di movimento, ma avevo fatto una scelta e ora dovevo accettarla fino in fondo, anche se avrei pagato l’oro del mondo per un paio di gambe e fuggire da quell’incubo. Intanto, l’uomo guardava intorno come se sapesse bene cosa cercare, e, n’ero certo, voleva me. Osservava con infinita cura e lentezza, esasperando quegli attimi d’eterna agonia e da ogni fibra del mio essere emersero gocce salate, dall’antico sapore di lacrime. Egli s’avanzava minaccioso sempre più. Mai come allora ho invidiato le ali degli uccelli, le zampe dei cervi, i guizzi dei delfini abili ad immergersi negli abissi degli oceani e svanire nell’oscurità che protegge. Nessuno che non sia una verde creatura, può capire cosa significhi vedere avanzare un uomo dall’espressione idiota, con in mano uno strumento terribile e non poter far nulla per impedirgli di massacrare. Gli esseri umani non hanno nessun rispetto per la loro esistenza, figuriamoci per quelli che loro definiscono animali e piante, quando persino dalle pietre nasce la vita. Mi preparavo, dunque, ad affrontare l’inevitabile destino, ma un evento inaspettato cambiò il corso degli eventi. Aveva egli acceso l’apparecchio in un’esplosione di rumori infernali che si propagarono per l’intera vallata e già sentivo i denti della lama affondare nella mia corteccia, quando, all’improvviso, alcuni spari rimbombarono nel folto della foresta, perdendosi in lontananza, in un’eco che si spegneva tra le foglie. Vi fu un attimo sospeso, in cui si udì il frenetico volo degli uccelli e il cupo rumore del corpo che si accasciava in una pozza di sangue, mentre il suo attrezzo, cadendo, gli troncava adagio una gamba, tra urla, così forti, da piegare persino i rami più alti. L’arnese infernale continuò a ronzare ancora un po’, mentre i suoi lamenti si affievolivano gradualmente, a mano a mano che il suo corpo annegava nel suo stesso sangue, infine si spense. Poi fu soltanto silenzio, quando aprii gli occhi, fui felice di vedere i miei germogli colorarsi di rosa.      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

la farfalla di vetro volò sulla Terra,

dipinse il Mondo,

mille sogni si sparsero nel cielo

irradiarono tutti i paesaggi

e,

germogliando,

 imparammo ad amare

 

 

 

 

Il professor Giulio Maira, uno dei chirurghi di fama mondiale, direttore dell’Istituto di Neurochirurgia del Policlinico Gemelli di Roma, considera “bello” il cervello, oltre a “produrre” bellezza: «Ora che gli strumenti di analisi scientifica sono diventati più perfezionati, ci permettono di scoprire nel corso di un’indagine tecnica immagini che sembrano davvero dei quadri e che mostrano paesaggi di corallo appoggiati agli scogli su un fondale marino, meravigliosi alberi innevati sotto la luna». [37] L’organo più potente dell’universo è stato analizzato, scandagliato, fotografato, sottoposto alla risonanza magnetica funzionale per immagini (FMRI) e alla tomografia a emissione di positroni (PET); sono stati sezionati miliardi di cervelli, umani e animali, morti e vivi in tutto il mondo e si è appurato che il sistema visivo, è strettamente collegato al cervello, tanto da essere considerato “una cosa sola” ha molte aeree specializzate per ogni funzione che a noi sembrano separate, e che le variabili che influenzano la nostra produzione, fruizione e comprensione dell’arte sono molteplici: dalla cultura al livello di comprensione; dagli stati soggettivi e l’amore e le esperienze, non solo estetiche. Il professor Semir Zeki si è avvalso della collaborazione di Balths (La ricerca dell’essenziale), ha curato la mostra retrospettiva di Piero Dorazio a Locarno, dal titolo: Colore e cervello. Dal 1967 si occupa dell’organizzazione del cervello visivo nei primati, passando nel 1994 alle basi neuronali della creatività e dell’apprezzamento estetico, fondando nel 2001 l’Istituto di Neuroestetica, a Berkeley, proseguendo gli studi che risalgono al 1750, quando Alexander Gottlieb Baumgarten crea l’Estetica, il cui significato etimologico vuol dire: sensibilità (aisthesis). In un periodo nel quale si persevera nel considerare “la morte dell’arte”, la sua “inutilità”, compreso l’anacronismo pittorico e l’inefficacia della sua azione sulle persone e la società, coincidente con la mia venuta al mondo e la naturale autoformazione artistica, gli studi scientifici, psicologici, estetici, artistici sono continuati, sommando nuove conoscenze, le quali dimostrano, che le teorie che ne avevano decretato la fine (Hegel, Danto …),  erano e sono totalmente soggettive, poiché milioni di IO hanno realizzato meravigliose opere d’arte, siano esse sculture o dipinti o impacchettamenti di edifici e relativi cavalli nelle gallerie. «Naturalmente le persone continueranno a dipingere, a scolpire, a fare installazioni e così via, ma le loro opere si porranno in un contesto post-storico, che le confina in un edonismo effimero, privo di quel sostegno teorico che la filosofia aveva garantito loro, sia pure in un modo molto ambiguo e tendenzioso». [38] Le profonde argomentazioni di Danto, riportate da Perniola con grande lucidità, offrono lo spunto per dissertazioni infinite, ma che concernono il punto di vista dello studioso americano, molto soggettivo e radicale, il quale esclude il pensiero obliquo, e, di conseguenza, i suoi ragionamenti non ne tengono conto, procedimento che non segue Perniola. Infatti, egli, procedendo lungo le direttrici della logica, si chiede, come mai, se l’arte è “morta”, “inutile”, astorica, destituita, seguita ad assorbire migliaia di Io, in studi, i cui risultati continuano a stupire coloro che sono ancora in grado di accogliere il Meraviglioso, nonostante e a maggior ragione, le devastazioni compiute dai Potenti, intenti nel relegare la massa dei cittadini, nei recinti inquinati dei ghetti sempre più invivibili e degradati, non solo in senso fisico e paesaggistico: «Il fatto che essa sia stata tanto temuta non solo da Platone, ma lungo i millenni sia stata oggetto di censure e di controlli da parte della politica e della religione, resta qualcosa di paradossale. Se non dice niente di vero e non ha nessuna influenza, perché mai ha suscitato tanto ostilità, al punto da dover essere destituita, ieri come oggi, dai suoi diritti, se mai ci furono? Quale pericolo arreca alla società, al punto da minarne le basi? Una risposta potrebbe trovarsi proprio nella sua inutilità e inefficacia: in un mondo che è interamente dominato dagli interessi pratici connessi al potere e all’economia, l’arte ci introdurrebbe nell’esperienza estetica, la quale è appunto disinteressata ed estranea ai bisogni». [39] Ampliando il ragionamento di Perniola, viene spontaneo domandarsi come mai, scienziati, studiosi di arte, organizzazioni internazionali, tra le quali, il Premio Nobel, e mille altri enti o università, continuano ad occuparsi d’arte, sprecando il loro tempo e il loro denaro. Evidentemente «l’arte rappresenta una testimonianza preziosa del suo funzionamento e in ultima istanza, dell’uomo»[40] e non penso che il professore si riferisca soltanto all’arte del passato, né che consideri le immagini pittoriche “fuori tempo”, al contrario utilizza la terminologia artistico-estetica per comunicare la meraviglia delle connessioni neuroniche nelle regioni cerebrali, degni scenari di film di fantascienza, come quelle di Escher o del film di Richard Fleischer, Viaggio allucinante (1966) [41], ispirato dal romanzo di Isaac Asimov. Ed è esattamente un viaggio allucinante che s’intraprende lungo l’esplorazione dell’arte nei vari settori e discipline che ne compongono gli universi, esperienza che ho manifestato in opere come La foresta incantata (N. 61), o Paesaggio fantastico con figure geometriche (N. 62), del 1986, periodo assorbito prevalentemente dalla manualità. Esso preparerà le opere che ora sono in grado di comprendere e che l’inconscio lasciava emergere, forse sapendo che un giorno le avrei analizzate. Scelte guidate dal senso estetico inconscio, hanno dipinto sottosopra, la scia di luce che attraversa la foresta, l’impianto è, invece, costruito razionalmente, come un paesaggio fantastico con delle figure invisibili, ottenute coprendo semplicemente le zone che non andavano colorate; ottenute, quindi, per sottrazione, per mancanza e assenza, tutte istanze fondamentali con cui lavora l’inconscio e che all’epoca non conoscevo ancora e nemmeno il meccanismo.

Perché, dunque, il triangolo è rivolto verso l’alto e il fascio di luce emerge dal sottosuolo? Ora posso sapere che era l’inconscio stesso che saliva verso la superficie, nella direzione del giorno e gli studi che avrei compiuto negli anni che mi separavano dall’opera. Posso anche aggiungere, che le circostanze fortuite (?), le quali mi hanno permesso di lavorare a San Gallo e realizzare una gran mole di dipinti (evento che non mi è possibile replicare qui, e che dedico allo studio teorico), mi fa supporre, che già all’epoca, il mio Io inconscio, lavorava per darmi dei materiali, sui quali, lavorare in seguito e che nulla, in esso, è passivo: «La percezione non è un processo passivo: è il sistema nervoso che costruisce ciò che vediamo, ed è il cervello che attribuisce un significato ai segnali che riceve per permetterci di acquisire nuove conoscenze e fare nuove esperienze». [42] Questi segnali sono per la maggior parte, com’è stato ampiamente dimostrato, inconsci e soltanto lunghe ricerche e molte esperienze sono in grado di poterle comprendere. L’attribuzione di senso riesce se si conoscono i contributi degli Altri, sempre in relazione con le nostre esperienze, in uno scambio continuo di neuroni, così potenti da viaggiare nei secoli e farci dialogare con Eraclito, e in generale, con chi è a noi affine; inoltre il dipinto, con tutte quelle linee che s’intersecano, s’incrociano, s’illuminano riproducono lo schema neuronale con relativi assoni e dendriti, nell’evidenza di un paesaggio che ascende al livello della superficie e dell’apparizione e rivela una visione dell’interno più profondo, illuminato da flussi di luci, che in seguito, si sarebbero manifestati nel 2002, con la stesura dell’Introduzione al pensiero obliquo che allora non potevo sapere di avere dentro, poiché non avevo ancora acquisito le conoscenze teoriche, per analizzare la mia produzione. Ciò significa che ero biologicamente e culturalmente predisposto a slanci naturali e spontanei verso astrazioni artistico-filosofiche, dove poter indagare l’infinito, grazie ai neuroni-specchio, dove l’immensità dell’IO e del macrocosmo si fondono e diventano una cosa sola e che io indico nell’O maiuscola, simile all’infinitesimale microscopico, che governa l’ingovernabile quantico, accessibile fino ad un certo punto, poiché quando osserviamo i fotoni, ne modifichiamo l’esistenza, come se fossimo noi, con lo sguardo, a farlo vivere. L’impulso, divenuto sguardo, si riversa nei flussi invisibili e svanisce negli spazi senza tempo, lì, dove si materializzano le opere che modellano la mente, oltre i limiti della contingenza e, valicandoli, s’incuneano in tutti gli interstizi, tra neuroni sempre rinnovati, quando ri-creiamo i simulacri delle prime esperienze emotive che ci hanno ancorato al fantastico mondo dell’immaginazione continua, che solo la magia dell’arte e dell’amore riescono a ri-produrre. E senza immaginarlo, imitiamo lo stesso fenomeno del Big Bang, in scala ridottissima, minima ma vitale per il nostro Io, intento nel lavoro di vivere, assorbendo e contemporaneamente espellendo frammenti d’arte, poiché, se il rumore di fondo dell’universo è ancora udibile, gli atomi dei valori del Rinascimento sono ancora tra noi.

 

L’immagine artistica è già metafisica, poiché “scrive” la realtà nel linguaggio iconico, che è pura astrazione. Essa è la prima filosofia condannata da Platone, perché copia della copia, come se la riflessione filosofica non fosse anch’essa una copia del reale, equivoco voluto anche da Aristotele e decretato col testo Metafisica, dove fonda, attraverso il sillogismo, la logica tautologica, attraverso proposizioni non derivate, apparentemente universali, dove non si aggiunge, né si toglie l’ovvietà delle verità. Che Socrate sia un uomo e che sia mortale e che dunque tutti gli uomini siano mortali, ha permesso mistificazioni, sulle quali Chiesa cattolica e stato borghese hanno fondato la società occidentale fino alla metà Ottocento attraverso il potere assoluto e l’ignoranza del popolo, iniziato a scricchiolare in scienza con Charles Darwin (Origine delle specie, 1859; Origine dell’uomo, 1871) e in filosofia con Friedrich Nietzsche, la cui fama internazionale, oltre a costituire un’evoluzione culturale distante anni luce, ha avuto l’incalcolabile merito d’iniziare a re-introdurre l’Io nella totalità della persona istruita, separati da secoli di dominio politico, ideologico e morale, nel cui ambito, valevano soltanto etiche variabili e interessi personali, contrabbandati per valori universali. [43] Non è ancora l’IO, come l’intendeva A. Breton, quando scriveva della riunificazione di tutte le facoltà in possesso dell’uomo, per la liberazione totale del soggetto: economica, morale e culturale, ma l’inizio di una lenta presa di coscienza delle verità che riguardano il corpo e la mente, non più concepiti come opposti. Così si racconta la bellezza del paesaggio interiore, che le foto delle connessioni neuroniche rendono precise, come autentici paesaggi fantastici, contemporaneamente realistici e astratti, senza alcuna demarcazione di confini, riduttiva e inconsistente, in ambito esclusivamente pittorico e ancor più, tra le varie forme d’espressione estetica, morale o politica, fisica o mentale e quindi, secondo a quanto scritto e mostrato finora, per me tutto è Paesaggio: corpo, volto, statua, natura, cosmo, … le divisioni, le classificazioni, le categorie hanno importanza per chi si ostina a considerare statica la realtà, anche se molti, sono alla ricerca dell’ordine, della stabilità, dell’immutabilità, di leggi eterne, di codici e convenzioni, come la suddivisione di Io, Super Io ed Es, simile alla sequenzialità monotematica, radicata sulla difesa di valori uniformi validi per tutti. Probabilmente lo desiderano per seguire un’illusione che dura fin dai tempi di Platone, proteso nella ricerca dell’uniformità delle leggi estetiche, fisiche, etiche, morali e politiche, ma che gli studi continui, liberi da qualsiasi virus di pregiudizio, hanno sempre smentito, generando eterogeneità e cambiamenti (sia pur impercettibili, ma che gli strumenti, sempre più tecnologici dimostrano), rilevabile da tutti poiché, da sempre, un secondo non è mai identico al precedente, né una foglia è uguale alle altre. L’immenso IO, mai Super Io, continua a produrre diversità, repentini cambiamenti, e basta questa considerazione per far riflettere coloro che si ostinano nel volere l’uniforme, dove tutto è difforme, sia pur nell’identità dell’Io (Lévinas). L’arte mostra (e ha sempre mostrato) tutto ciò con chiarezza disarmante, [44] e l’ evidenzia, tanto più, quando lo nasconde nell’Io più profondo, fin dall’ovvia constatazione, che il primo paesaggio siamo noi, immersi in tutti gli altri paesaggi che riusciremo a interiorizzare e quindi a produrre, siano essi cambiamenti antropici o architettonici. Solo in essi, si potranno vivere tutti gli ambienti tra scorie e rifiuti d’ogni genere, e quando l’opera d’arte mostra il concetto, lo ignoriamo, poiché tutta la cultura dell’opulenza è, in gran parte e per i ceti meno abbienti, predisposta all’immondizia (T. W. Adorno), in particolar modo, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale e ciò basta a togliere tutta la poesia e il romanticismo, che illusoriamente ancora pervade la maggioranza, un tempo seguace dei rotocalchi e ora dei talk show, spacciandoli per cultura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

P. S. Non scrivo del Super Io, perché, se ne parlassi, anche solo per criticarlo, implicitamente, contribuirei a mantenerlo in vita, legittimando un’esistenza, della quale, non avverto necessità, del resto, basta dare uno sguardo, anche solo di sfuggita, alla Storia, per costatare i danni che ha causato. Se qualcuno riuscirà a convincermi che esso ha prodotto un solo fatto utile, allora ne scriverò in un libro futuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

APPENDICE I

 

 

 

PAESAGGI DELL’ANIMA

 

 

 

 

 

Modigliani ha dipinto tre soli paesaggi e a Diego Rivera gridava: “Il paesaggio non esiste”, al che il messicano gli rispondeva, urlando ancora più forte: “Il paesaggio esiste”. Avevano ragione entrambi. Sia il paesaggio, che la figura umana, esistono e a farli esistere sono proprio gli artisti che vedono nella realtà tutta, il fine dell’arte. Realtà molteplici e che riguardano l’interno e l’esterno, il presente e il passato, il sogno e il pensiero. È con Giorgione che il paesaggio divenne soggetto e non più ornamento delle figure umane. Egli capì che l’esterno non è così diverso dall’animo e nella Tempesta (1506 c. Venezia, Gallerie dell’Accademia) sembra quasi che abbia voluto farci vedere la psiche della natura e non soltanto la sua poesia. La spoglia roccia in primo piano è rivoluzionaria, in quanto occupa il centro, riservato tradizionalmente a soggetti più nobili, motivo che sarà ripreso da Corot con La Cattedrale di Chartres nel 1830 (Parigi, Musée du Louvre), il quale ha il merito di spostare l’interesse dal simbolico tradizionalmente elevato (soggetti sacri o pagani) alla strutturazione dei volumi e degli accordi cromatici, facendo coincidere materia e spiritualità non più metafisica, attraverso un geniale parallelismo semiologico tra il cumulo di terra e la splendida Cattedrale. Nel paesaggio e in molti altri soggetti adesso vi è la stessa intensità dell’anima più profonda.

I paesaggi sono stati mentali, geografie misteriose che risalgono dai profondi labirinti inconsci e si cristallizzano sulla retina con l’unico scopo di restituirci la nostra visione interiore. Null’altro che flussi, vaporosi come le nebbie dei quadri di Turner, o delle vedute di Venezia attraverso gli occhi di Monet, utilizzati fino al punto di esaurirli e diventare cieco. E forse sarà stato questo il motivo che mi ha iniziato alla pittura a olio e scoprire le Paludi, sbocco naturale dopo dieci anni di esercizio nel disegno da autodidatta. Ma cosa sono i paesaggi senza il pensiero? Null’altro che paludi, masse amorfe e ripugnanti da dove si può emergere soltanto attraverso l’aiuto degli Altri, poiché, anche se ne vieni fuori da solo e continui a non incontrare nessuno, persisti nei suoi labirinti, smarrendoti nei suoi infiniti meandri, anche se li dipingi con i colori dell’arcobaleno.

Le Paludi sono nella nostra mente ancor prima di trovarle all’esterno. Rosse, gialle, blu (il più spirituale dei colori) non importa, esse sono comunque, emblema di uno stato contraddittorio, poiché le vere paludi sono luoghi terrificanti. Non si può vivere in questi luoghi abitati da tutti quegli esseri odiati dalla civiltà. La palude è il regno del rifiuto, dell’emarginazione continua, delle sabbie mobili e della morte. Ma anche dei fiori più belli, degli spettacoli più fantastici, dei colori più sublimi. La palude è l’ossessione di restare intrappolati negli acquitrini pieni di rettili, di creature ripugnanti eppure così affascinanti da non poter distogliere lo sguardo. Animali che vivono accanto a noi, dentro di noi e che ci spiano, mentre ci accingiamo all’opera.

L’arte spiritualizza tutti i luoghi e tutti gli oggetti, ha il potere di rendere piacevole il ripugnante, vicino il lontano, l’informe formato. Le Paludi rappresentano un percorso poetico attraverso cui si materializza l’infanzia, dove l’acqua costituisce il primo elemento con cui veniamo in contatto, il logos primordiale della nostra nascita, l’origine di tutti i nostri desideri. È il primo contatto con il mondo, la prima conoscenza dell’universo, così come negli antichi filosofi greci era il mare l’origine del cosmo. Nelle paludi vi è il fascino dell’esotico, dell’avventura, del mistero. Un ritorno ai valori dell’animalità, il cui istinto è quel che per noi è il concetto. Le Paludi sono il simbolo dell’essenza della natura non contaminata, natura sempre più lontana dall’essere umano, divenuto una profonda distesa di solitudini ancora più profonde delle stesse paludi.

 

Lo spazio spirituale che attraverso l’azzurro delle acque e del cielo si collega ai grandi dipinti di Monet è il segno di uno studio filosofico-poetico, ancor prima di essere pittorico. Una ricerca volta all’acquisizione di una disciplina mentale e dell’armonico equilibrio interiore, attraverso la rappresentazione di paesaggi concreti lungo il sentiero della libertà e dell’utopia, il solo capace di abbattere i solidi muri della separazione e dell’incomunicabilità. La stessa esigenza che emerge dalla profonda intuizione di Francesco di Giorgio Martini che nella Natività (1484-1490, San Domenico, Siena), libera le figure in uno spazio aperto, davanti ad un grandioso arco diroccato, segno fin troppo evidente del desiderio di liberare la pratica artistica dal peso delle regole, simbolizzato dal sostegno che collega le due parti del muro, simile ad un ponte sospeso tra passato e presente. Ed è con Il ponte (1994) che stabilisco uno stretto legame con i dipinti di Monet, il più lirico dei pittori impressionisti. Nella sua lunghissima opera sulle Ninfee (1899) egli realizza una prima serie (dieci tele dal formato quasi quadrato 89 x 93 cm.) dove compare un ponticello giapponese che attraversa lo stagno, da lui stesso fatto costruire a Giverny; dipinti che prolungano la visione interiore, iniziata qualche anno prima con la serie della Stazione St. Lazare e della Cattedrale di Rouen (1894). Nelle Ninfee il cielo è riflesso nelle acque del laghetto invase dal fogliame, intrigo di caverne vegetali dove si specchiano le nostre immagini, ombre evanescenti di realtà sempre cangianti. Realtà sempre meno reali e che simili alle idee platoniche ci rendono ancora più trasparenti dell’aria che respiriamo. Realtà: nient’altro che false apparenze, nascoste dietro false apparenze e in cui la verità ci è possibile grazie a questo gioco di specchi, poiché ciò che È rimane sempre al di qua o al di là di ciò che È. Quel che è intuibile non è mai completo. Ecco perché l’arte ha il compito di far svanire ciò che ancora non è e non sarà mai: la vita vera. Svanire come le tonalità eteree delle Ninfee, divenute pura luce nelle visioni di Turner. Ecco come il simbolismo dell’anima si fonde con la tradizione e continua in quelle opere che dialogano attraverso il linguaggio dell’anima, identico a quello dell’arte. I muri sono simboli di solitudini; i ponti lo sono della comunicazione, soltanto essi permettono il passaggio tra mondi, valicando istantaneamente intere epoche cristallizzate, come splendide stelle nel Tempio della Storia.

 

Nel dipinto Il ponte la Diagonale dell’acqua taglia l’immagine in due parti simmetriche attraversate dal ponte, passaggio obbligato per accedere alle verità dell’arte, verità che possono essere scoperte interiormente come il più prezioso dei tesori e solo per intuito, non per logica. La Linea obliqua avvicina lo spazio, condensa i significati, introduce un elemento dinamico, porta in primo piano ciò che è trasversale e apparentemente non rilevante. Per questo la Diagonale può essere considerata come il simbolo stesso del Sogno. Simbolo che emerge in quasi tutte le mie opere come ne Il sogno di Mercurio (1997-1998), dove possiede il significato della sintesi poetica e della riunificazione di tutti i più alti valori dell’essere umano. È un paesaggio dell’anima dove l’essenza della natura è racchiusa nei corpi, levigati come statue di carne, sensuali come le divinità dell’amore. La continuità dall’antico al moderno è tutta nella Diagonale[45] della gamba di Venere, la quale prosegue idealmente e fisicamente in quella di Mercurio, come una linea Ideale della trasmissione dei valori dal piano storico-concettuale a quello, della vita, della materialità, dell’agire, dell’esistenza fisica nella felicità sensibile ed emozionale dell’estasi. La circolarità della composizione è evocata dai punti di contatto di tutte le figure. Essa subisce un’inversione verso la spiaggia con il cambiamento alternato delle gambe di Venere e di Mercurio, esattamente speculare con l’altra inversione costituita dalla gamba destra piegata di Afrodite e il braccio sinistro del Messaggero degli dei. Cambiamento che viene sottolineato dalla torsione del busto di Venere, il cui volto, esattamente al centro del dipinto, costituisce il punto di fuga ideale di ogni linea prospettica, aperta soprattutto sull’immaginario, il cui annuncio giunge attraverso le forme ingigantite dei cavallucci marini, messaggeri onirici di un mondo fantastico.

 

Anche questa composizione è basata sui triangoli, il maggiore del quale è costituito da Nettuno, Venere e Mercurio; sembra quasi che le figure siano un pretesto per nascondere una composizione geometrica e astratta, che dalla terra sale verso il cielo, passando attraverso il verde smeraldo del mare, così da formare l’altra Linea obliqua il cui vertice è rappresentato dal tridente di Nettuno. Tutto il dipinto emana l’idea magica del triangolo e del cerchio (invisibile), della realtà e dell’astrazione, del finito e dell’infinito in un dinamismo continuo e ieratico, che culmina nella torsione del corpo della dea dell’amore. La posa classica delle figure, in particolare quella delle Grazie: Eufrosine, la gioia; Talia, la prosperità; Aglaia, lo splendore, sono il simbolo della gioia di vivere degli impressionisti e che sembra essere stata spazzata via dal negativo della nostra epoca. E infatti nei nudi di Renoir ritorna lo spirito che animava gli artisti greci nel periodo del loro massimo splendore, lo stesso spirito che ha permesso a Canova di scolpire Le tre Grazie (Galleria dell’Ermitage, San Pietroburgo), le cui forme sensuali emanano un dolce erotismo, lieve come il candore della luce che avvolge il marmo, quasi fosse stato modellato dai baci e dalle carezze. L’equivalenza di Sogno e Realtà è data dalla consistenza pittorica di tutte le figure, inserite nella stessa visione di Mercurio che sogna, procedimento simile a quello di Füssli nell’Incubo (1781, Detroit, Intitute of Arts), e diverso da quello di Ingres ne Il sogno di Ossian (1813, Montauban, Musée Ingres), il quale separa i due mondi variando le tonalità cromatiche, fino al monocromo per la realtà onirica.

Se la prima rappresentazione di sogni mostrava incubi, continuati con l’opera di Redon, anticipatore del simbolismo e del surrealismo, Il sogno di Mercurio capovolge questa visione ed esalta l’entusiasmo per la vita e l’amore per i sensi, e l’inserisce nella quiete del mare verde e nell’atmosfera sospesa ed ieratica delle figure. Scrive Kandinsky “Mescolando questi due colori (il giallo e il blu) diametralmente opposti in un equilibrio ideale si forma il verde. I movimenti orizzontali, quelli centrifughi e centripeti, si neutralizzano a vicenda. Nasce la quiete. (…) Il verde assoluto è il colore più calmo che ci sia: non si muove, non esprime gioia,tristezza, passione, non desidera nulla, non chiede nulla. (…) Il verde è il colore fondamentale dell’estate, quando la natura ha superato la primavera, il periodo Sturm und Drang dell’anno, e s’immerge in una quiete appagata. Quando il verde assoluto perde il suo equilibrio, si alza verso il giallo e diventa vivo, giovane, gioioso. La mescolanza col giallo gli dà nuova forza. (…) Da un punto di vista musicale esprimerei il verde assoluto con i toni calmi, ampi, semi[46]gravi del violino”. Il verde assoluto dei cavalli marini, perfettamente verticali al centro del dipinto, quasi una corona fantastica sul capo di Venere, spinge la composizione verso il cielo e collega la materialità terrena alla spiritualità dell’azzurro, attraverso il giallo della sabbia, lambita dai movimenti lievemente spumeggianti delle piccole onde. Le divinità sono tutte color terra di Siena, lo stesso colore della spiaggia, eppure sono tutte diverse grazie all’impiego dell’ocra gialla, della terra di Siena bruciata e del bianco. Lo sguardo di Venere rivolto all’indietro sembra voler evidenziare l’impossibilità della bellezza e dell’amore dei nostri tempi, come se la vera armonia si potesse trovare solo nel passato o nell’intimo animo umano. E infatti, continuare a dipingere oggi ha il sapore dell’antico, di una pratica completamente fuori da qualsiasi contesto sociale, al punto da fare del pittore una creatura immaginaria, un sognatore alla ricerca della sua isola esotica, lontana dalle solitudini alla deriva.

 

 

Le isole di Maldive I e II, ma anche quelle di molti altri dipinti, condensano diversi racconti il cui centro è costituito dal Nudo, simbolo dell’erotismo per eccellenza, ma ancor di più della Verità, luogo dove si vorrebbe vivere, ma ancor di più dove si potrebbe vivere, e non solo nella narrazione onirica, ma soprattutto quando si rappresentano generi “realistici”, anzi ancor di più quando si sceglie l’iperrealismo, dove l’effetto di straniamento risulta ancora accentuato per meglio ri-creare il Sogno volendogli aderire fino in fondo e portarne un pò in questa landa desolata che si chiama civiltà. I paradisi naturali I e II, con il cambiamento di scala nella realizzazione del paesaggio e degli oggetti: vasi, fiori, personaggi costituiscono l’opposto esatto dei valori arte-vita, volutamente riferito ai Paradisi artificiali di Charles Baudelaire già dal titolo stesso, dialogando con il suo concetto di artificiale, con lui che visse in un’epoca ancora non totalmente alienata alla Natura. Cos’è, infatti, naturale e cos’è artificiale dato che persino la “macchina” è il risultato dell’ingegno umano e quindi conquista indiretta e non voluta della natura? Però mai tale prodotto è stato così lontano da essa!

Se con Marcuse è la realtà dell’arte ad essere autentica, l’iperrealismo, un’ennesima sfida alle capacità umane di competere con la fotografia, soprattutto in un periodo favorevole alla pittura astratta, convalida l’intuizione di Marcuse e costituisce la premessa necessaria per sognare da svegli, dopo la dura fatica di costruire un sogno con la precisione di un ingegnere e la grazia di un  architetto. Se nei Paradisi naturali I si dà maggior rilievo alla figura umana cambiando le proporzioni così da valorizzare i corpi, nel secondo dipinto sono i vasi ad essere ingranditi e le figure umane, disposte simmetricamente si trovano ad essere nello stesso tempo grandi e piccole, aumentando l’effetto di straniamento, accentuato dal nudo nel vaso in quanto è nello stesso tempo fuori di esso. I paradisi naturali II è un racconto surreale che si articola sui contrasti, analogamente all’altro dipinto San Giorgio in lotta con il Drago (1998), dove le forze contrapposte si alternano nell’immobilità sospesa dell’attimo che sta per accadere e che è già passato. I paesaggi onirici, resi con la tecnica del troemp-l’oeil, dilatano l’immaginario e superando i limiti della realtà si trasformano in segni dell’anima. “La visione poetica è alta fantasia: intuizione sensibile di una realtà spirituale illuminata dalla discesa di un raggio celeste.”[47]

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo studio dell’artista (1999) è una piccola storia dell’arte, il cui richiamo esplicito alle maggiori correnti dell’arte contemporanea si fonde con il tema dell’assenza-presenza, forse per evocare un’arte che non esiste più, dato che da tempo si celebra la morte dell’arte, o almeno di quell’arte pittorica ormai definitivamente consegnata alla storia. Non a caso Erodoto e Tucidide sono posti in alto, proprio per evidenziare il carattere anacronistico di fare pittura oggi e anche per suggerire una possibile via di fuga nella storia. Ma se esiste l’opinione comune che la ritiene sorpassata, ne esiste un’altra in cui non si può fare a meno della pittura. Non si può impedire a nessuno di dipingere, con tutti i rischi che questa attività comporta, pericoli ben evidenziati dalla contrapposizione dei ritratti di Socrate e Faruffini[48], i cui sguardi sono rivolti in direzioni opposte e la cui torsione del volto del pittore tenta disperatamente di riportare la ricerca artistica nell’ambito della conoscenza in generale. Infatti, sia la filosofia che l’arte sono strumenti d’indagine dai numerosi punti in comune, culminati nella nascita dell’Estetica, la più scientifica tra le teorie sull’arte. Il pennello posato sulla tavolozza che collega il cavalletto al pane enuncia la volontà di vivere del proprio lavoro, desiderio negato a molti in quelle società dove il fantastico individuale ha scarsa rilevanza, pensiero accentuato dalla sedia vuota, segno dell’artista che non c’è più, ma che è esistito e continuerà ad esistere, nonostante le forze negative della società.

            Un altro concetto fondamentale, ripreso molte volte in ambito letterario (Sulle acque scure dei Navigli, La stella di cristallo, Sogni il ponte e altri racconti), è quello della continua corrispondenza tra il fantastico e la realtà, in un perenne divenire dialettico sintetizzato dal volo delle farfalle che emergono dal quadro dipinto dentro il quadro. La Diagonale che collega la sedia al dipinto posto sul cavalletto attraverso le farfalle forma una V con i busti di Faruffini e Socrate e inserisce il triangolo nella forma rettangolare di tutto il dipinto, dove la libreria è dominata dal quadrato. Il riferimento a Mondrian intende ribadire ancora una volta l’idea che si può giungere alla purezza delle forme anche attraverso l’arte realistica. Il sincretismo di figurativo e forme geometriche ha lo scopo di liberare la visione oltre le apparenze per spostare le molteplici percezioni dal piano sensibile a quello mentale. L’altra Diagonale immaginaria parte dall’anfora e culmina nel busto di Tucidide attraverso la rosa, tocca il punto centrale nel ritratto di Faruffini, per cui tutta la composizione assume il significato di un omaggio a tutti quei pittori che a causa delle miserie delle varie società, sono stati costretti a togliersi la vita.

 

Mosca 2000/2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

APPENDICE II

 

RAZIONALISMO E IRRAZIONALISMO

 

 

 

 

 

Il razionalismo e l’irrazionalismo hanno da sempre costituito i poli entro cui si è incanalata la conoscenza e costituiscono le due principali correnti che ancora oggi caratterizzano la ricerca artistica, e scientifica. Per molti secoli gli studiosi si sono logorati nel tentativo di dimostrare la superiorità dell’una o dell’altra conoscenza, anche se vi sono stati numerosi tentativi di mediazione. Così come esistono i fondamenti della scienze esatte, così esistono i fondamenti della persona, non meno importanti dei primi. Già i Greci avevano scoperto che la logica, spinta fino alle estreme conseguenze, confina con l’irrazionalismo, come nei paradossi di Zenone di Elea (V sec. a. C.), discepolo di Parmenide, grande idealista, il quale fornirà le basi del sistema platonico, ripreso e perfezionato da Hegel, in particolare nella Scienza della Logica, dove invita ad abbandonare la logica comune delle esattezze, in quanto l’essere (argomento centrale della logica metafisica) procede su basi diverse: «La cosa non va affatto come nelle costruzioni che ci si richiede di fare per ottenere la prova di una proposizione geometrica. In geometria è solo nelle dimostrazioni, che si vede come si fosse fatto bene a tirar precisamente queste linee, e poi, nelle dimostrazioni stesse, a cominciar a comparare queste linee e questi angoli; ma, per sé, in questo tirar linee o comparar, cotesto non si comprende».[49] Gli scienziati hanno ribattuto con il separare nettamente la filosofia dalla ricerca scientifica potenziando gli aspetti pratico-materialistici a svantaggio di una formazione umanistica (e quindi etica) con tutti i problemi che ne sono derivati e che continuano ancora oggi irrisolti. La critica feroce alla dialettica hegeliana, dove i positivisti vedevano una confusione inammissibile nella coincidenza degli opposti (identità di essere e nulla, cominciamento e infinito, l’uno e il molteplice…) ha trovato terreno fertile tra gli industriali, i quali hanno privilegiato la ricerca tecnologica a scapito di quella umanistica. Eraclito attribuiva la fonte primaria della conoscenza e individuò nel divenire una delle costanti fondamentali dell’essere, capovelgendo la concezione statica parmenidea, la quale veniva sensibilizzata e inglobata nella dialettica, strumento necessario per superare l’apparenza dei sensi e «cogliere l’unità nella molteplicità, l’armonia nelle contraddizioni» (Geymonat).

Con la logica di Aristotele e con il famoso principio di non contraddizione (la quale fornirà gli elementi operativi formali anche alle scienze naturali, insieme a quelli di Pitagora, Euclide, Democrito, Eudosso, Archimede, ecc.) si getteranno le basi del pensiero scientifico occidentale. Gli stoici, inoltre, distinguevano rappresentazioni irrazionali e razionali, queste ultime come effetto della dell’intelligenza, ma non riuscirono a dare un nome a quelle irrazionali. Caso curioso, ancora adesso vi è molta incertezza sul significato ad esse attribuito, visto che il significato varia da individuo a individuo, per cui, ciò che è razionale per una persona può essere interpretato come irrazionale per un’altra. Uno degli episodi più celebri è la lite tra Chagall e Malevič, lite che spinse il primo a dimettersi dall’accademia che dirigeva e che aveva fondato a Vitebsk: «Benché periferico, l’episodio è estremamente significativo per la storia delle idee artistiche del tempo. Verteva, in sostanza, sul problema fondamentale della lingua: per Chagall favella e favola sono (come di fatto sono) la stessa parola, con la favola s’inventa la lingua: per Malevič (come in Olanda per Mondrian) il discorso è logos ed il logos logica pura».[50]  In questo dualismo, irrisolto a livello soggettivo (e quindi di psicologia individuale) ma mediato e risolto dalla dialettica sul piano teoretico sovraindividuale è facile vedere altre celebri opposizioni: Parmenide-Eraclito, Hegel-Marx-Engels, Michelangelo-Raffaello…

Esistono però personalità dove razionale e irrazionale, logos e favola, scienza e poesia coesistono contemporaneamente senza contrasti, come per esempio in Escher. La sua visione dialettica gli permette di conciliare gli opposti (astrazione-figurazione, scienza-poesia, immaginazione-realtà, ordine-disordine) e di realizzare opere straordinariamente profonde fino alle soglie dell’inconscio. Il problema fondamentale della lingua intesa da Chagall non è altro che il problema centrale dell’individuo, al quale non gli si può imporre nessuna lingua. Quel che fa veramente grande Chagall è il non tener conto di nessuna regola che non sia quella dell’essere nella sua globalità. Capisce che la forma dell’arte racchiude tutte le logiche e non solo quelle pseudoscientifiche, come affermano ad oltranza Malevič, Mondrian e diversi altri. Lo sforzo titanico della filosofia e dell’arte razionale per dare ordine al mondo è uno dei più alti e diventa fondamentale con l’ausilio delle scienze. Il fatto, che quest’ordine fatichi ad essere raggiunto non deve far supporre che sia impossibile raggiungerlo, ma deve stimolarci a riflettere e agire continuamente affinché l’ordine non sia solo quello del dominio, qualunque esso sia (politico, tecnologico, ideologico, ecc.). Mondrian ha ragione quando individua nel pensiero l’elemento unificatore del soggetto, ma sbaglia quando attribuisce al sentimento tutti i mali della società e lo elimina dalla sua concezione. Per questo il suo pensiero etico (vicino a quello di Spinoza) è rigido come la sua pittura e altrettanto utopico come quello di molti razionalisti, in quanto, non tutte le azioni umane sono dettate dal pensiero e nulla ci assicura che sarebbero migliori se lo fossero. Le divergenze che hanno caratterizzato lo sviluppo dell’arte moderna, sintetizzato dallo scontro Chagall- Malevič si ripresentano nel rapporto Mondrian-Van Doesburg, dove compare quel sottile veleno della linea obliqua, causa della loro rottura e la fine dell’esperienza De Stijl, una tra le più importanti dell’arte contemporanea. Infatti, il contributo del neoplasticismo fu fondamentale, non solo per lo sviluppo dell’architettura, ma anche per un forte svecchiamento del linguaggio artistico, logorato da secoli d’uso e compromesso da termini ormai svuotati di significato, a causa della mancata applicazione pratica delle regole morali, culminata nel massacro mondiale. La forte necessità di chiarezza, soprattutto la Grande Guerra, ha condotto Mondrian, Van Doesburg, Oud, Rietveld, Van Eestern, Vantongerloo, ad affidarsi sempre più alla ragione e a criticare tutto quello che secondo loro era da considerare irrazionale. Le teorie di Mondrian cominciarono ad essere conosciute dal primo numero della rivista (ottobre 1917) e continuarono fino al 1924, quando Van Doesburg introdusse un elemento più dinamico nella staticità delle forme caratteristiche di Mondrian (la famosa diagonale, la quale ha il merito di accorciare lo spazio e può essere considerata come una funzione di condensazione psichica e quindi come elemento di risparmio energetico). Cezanne aveva già operato una riduzione delle forme elementari della realtà riducendo l’immagine ai solidi geometrici, lavoro che sarà di grande importanza per Picasso e l’arte in generale. Mondrian va ancora più in profondità per giungere a riprodurre «l’espressione della pura realtà» e trovare così i fondamenti delle leggi artistiche. Arriva a considerare i contenuti e le forme realistiche come elementi di disturbo, un ostacolo derivato dalle sensazioni troppo legate ai significati naturali apparenti, e perciò sempre mutevoli, insufficienti a cogliere la vera struttura della realtà.

Realtà considerata disomogenea, squilibrata, oscura e che può essere conosciuta e modificata con la ragione, attraverso la quale «lo spirito nuovo non può esprimersi che nella realtà vivente dell’astratto». È palese l’esigenza di porre un ordine pratico-mentale attraverso la disciplina delle pure forme geometriche, più che una vera e propria convinzione di conoscere la realtà nelle sue forme essenziali, dato che nella mente coesistono contemporaneamente istanze razionali e irrazionali. Gli obiettivi che si propongono i fautori del neoplasticismo sono quelli di eliminare gli impulsi irrazionali, il disordine, definire le funzioni logiche operative «per esprimere plasticamente rapporti non forme» (M. G. Ottolenghi) ed elaborare una prassi artistica che sia anche uno strumento per giungere ad una visione razionale. Il ruolo fondamentale attribuito alla purezza dei colori assume sotto questo aspetto il veicolo privilegiato per giungere ad una coscienza depurata dai «barocchismi moderni» (espressionismo, surrealismo, figurativo…) e ottenere il giusti equilibrio interiore, l’accordo felice di particolare e universale, individuale e sociale dove sono evidenti le influenze idealistiche e teosofiche.  Ciò di cui De Stijl non ha tenuto conto è la grande varietà e la ricchezza dell’animo umano che ancora oggi si manifesta nelle opere strutturate proprio con quelle forme che i neoplasticisti avevano eliminato. Se lo stesso Van Doesburg aveva avvertito l’esigenza di una variazione (rimanendo sempre all’interno di una concezione razionalistica) ciò significa che a lungo termine i significanti pittorici geometrici sono insufficienti per rappresentare le leggi della realtà, le quali sono essenzialmente dinamiche. L’arte fantastica riesce a cogliere più in profondità l’intimo dinamismo delle varietà (fisiche, mentali, oniriche…), possiede sempre il carattere di astrazione e in più lo traduce, a vari livelli, in un linguaggio accessibile al vasto pubblico, riuscendo così ad eliminare il problema della monotonia e della difficoltà di lettura, riservata solo ad un pubblico di specialisti. Se consideriamo l’origine del procedimento artistico, è inevitabile scendere nel «profondo», e infatti una lunghissima lista di studiosi, da Calvesi a Eco, da Freud a Lacan, da Hegel ad Adorno, dimostra che le origini del processo artistico vanno ricercate nel desiderio, la cui struttura (libera da ogni contenuto ideologico) è comune a tutti. Ciò che risulta insuperabile è la difficoltà di collegare questa struttura con le varietà delle espressioni, le quali si scontrano con le resistenze degli apparati sociali.  Le critiche alla società sono state realizzate da innumerevoli punti di vista: dai filosofi della scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse) a quelli esistenzialisti (Kierkegaard, Heidegger, Jaspers); dai fenomenologi (Husserl, Merleau-Ponty, Sartre), agli storicisti contemporanei (Dilthey, Mannheim, Dewey) e inoltre dagli psicanalisti, psicologi, sociologi, neopositivisti, artisti, ecc. La varietà labirintica delle analisi e delle interpretazioni ci fa comprendere la relatività delle teorie, in relazione ai fenomeni multiformi che costituiscono la realtà e fa emergere il ruolo fondamentale esercitato dal pensiero soggettivo.

L’impotenza dell’arte a modificare il negativo della nostra epoca è lucidamente manifestato, dalla rinuncia pittorica di Duchamp e alla conseguente scelta dei materiali prodotti dall’industria da lui definiti ready-mades, in un’estrema razionalizzazione della prassi artistica a cui è seguito il «silenzio», dato che nemmeno adoperando gli stessi strumenti materiali della causa dell’alienazione umana è possibile sfuggire all’inutilità del proprio operare. Il silenzio di Duchamp può essere una rinuncia a desiderare come i saggi orientali, i quali vedono nel desiderio una catena che lega gli esseri umani al carro degli eventi, da cui derivano sofferenze e frustrazioni. E infatti nella storia artistica di Duchamp è possibile considerare il Grande Vetro come l’ultimo desiderio pittorico in una società che non ha più posto per l’arte, né per l’artista. Non a caso, Calvesi definisce Duchamp invisibile, soprattutto per evidenziare il ruolo assunto dall’artista nella società tecnologica, completamente diverso da quello delle epoche precedenti. Ora che lo sviluppo del capitalismo avanzato ha trasformato le possenti investigazioni hegeliane in palesi ingenuità (ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale) e la stessa Ragione è insufficiente «ad afferrare il reale non per la sua propria impotenza, ma perché il reale non è Ragione» (Adorno), occorre stabilire quali sono gli strumenti idonei per attuare la razionalizzazione della realtà, operazione che non può ignorare il linguaggio artistico, soprattutto alla luce dell’orientamento generalizzato che lo esclude sempre più dalla reale fruizione sociale, bloccato dalla coscienza della propria impotenza a priori e quindi dall’impossibilità di trovare un accordo tra la forma irrazionale della realtà e quella utopico-razionale della libertà. Unione problematica nell’esistenza completa ma reale nell’immaginazione, dove si cela la trappola dell’emarginazione, e che permette, però, la possibilità di un’arte come Teoria Critica, dove attuare i significati interiori sfuggiti alla svalorizzazione della cultura massificata. Un’arte, cioè, strettamente personale, appartata fin nei più remoti luoghi della memoria, lontana da qualsiasi riferimento a tutti gli alienanti linguaggi consumistici, unico luogo dove poter far vivere i pochi valori che ancora, malgrado tutto, ci restano.

Da: Scritti sull’arte, 2000.

 

 

 

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Nel libro dei simboli, la «lucertola rappresenta l’anima che cerca la luce; quando la trova, rimane in un’estasi contemplativa dalla quale non riesce a distrarsi».[51] È questo uno dei significati principali della trilogia con la quale dialogo con Mondrian: e pur nella ragione estrema, non dimentico l’essenza della più profonda umanità, errore (se tale si può definire in tempo di democrazia), che hanno commesso in molti, ma non Turner, la cui grandezza diventa immensità, come la luce che ha immesso nelle sue tele, perché ha rinunciato alla fama contingente dei suoi estimatori contemporanei per amore dell’immortale verità, non solo dell’arte, ma soprattutto, quella etica, morale, umana e filosofica. È questo il significato della lucertola che compare dal vuoto di una piastrella mancante, ma non assente, mentre il “solido” pavimento della “razionalità” si dissolve in ogni direzione, perché la logica, al suo estremo, s’identifica con l’opposto. Infatti, il “ragionamento” nazista teso a eliminare i “non produttivi”, e riservava tutte le risorse del mondo agli “eletti”, non fa una grinza in una coscienza che vede negli altri, i diversi da eliminare. A quel tempo non conoscevo ancora che la lucertola è anche un simbolo di vita, luce e rigenerazione; per me, era un significato soprattutto di morte, non sapevo neppure che Mondrian colorava di bianco i fiori e i gambi naturali e che si metteva sempre di spalle alla finestra, per non vedere il paesaggio, il cui colore fondamentale è il verde, come la lucertola che si erge al centro del mio dipinto. Come potevo avere questi contenuti se il mio inconscio non me le avesse fatte emergere e mostrati attraverso il linguaggio della pittura figurativa? Come possono delle persone, siano esse studiosi famosi, o chiunque altro, decretare la fine dell’arte o della pittura, se ancora il pennello si rivela come il “sismografo” più idoneo per mostrare i molti io che costituiscono la persona nella sua totalità e che essa è collegata a tutte le altre, in mille relazioni invisibili e da scoprire? La spiegazione la danno gli studiosi della Scuola di Francoforte e molti altri che ne condividono il pensiero, dove si dimostra che il mega capitalismo post industriale, per sopravvivere, è costretto a “divorare” i suoi stessi “figli”[52], arrivando a minacciare la sovranità di stati interi, come Spagna, Grecia e Italia, non più con le armi, ma con il denaro: «Moltiplicando la violenza attraverso la mediazione del mercato, l’economia borghese ha moltiplicato anche i propri beni e le proprie forze al punto che non c’è più bisogno, per amministrarle, non solo dei re, ma neppure dei borghesi: semplicemente di tutti. Essi apprendono, dal potere delle cose, a fare infine a meno del potere. L’illuminismo si compie e si toglie, quando gli scopi più pratici più prossimi si rivelano come la lontananza raggiunta, e le terre “di cui i loro emissari e informatori non dànno loro notizie”, e cioè la natura misconosciuta dalla scienza padronale, sono ricordate come quelle dell’origine. Oggi che l’utopia di Bacone – “comandare sulla natura nella prassi” – si è realizzata su scala tellurica, diventa palese l’essenza della costrizione che egli imputava alla natura non dominata. Era il dominio stesso. Nella cui dissoluzione può quindi trapassare il sapere, in cui indubbiamente consisteva, secondo Bacone, la “superiorità dell’uomo”. Ma di fronte a questa possibilità l’illuminismo al servizio del presente si trasforma nell’inganno totale delle masse».[53]

Rimangono pensieri, immagini, postfazioni interminabili, poiché c’è sempre qualcosa di non detto, reinvenzioni di nuovi linguaggi, come quello di persona, non più maschera sociale, dove può trasformarsi, secondo le convenienze; l’arduo, e il molto, di quando ci si affida – perdendovisi - nei residui dell’adolescenza, mentre ancora si pensa di agire per una società migliore, più razionale, e, soprattutto “a misura d’uomo”, termine che nasconde la volontà di dominio, per cui è da preferire “a misura della Persona” , con la maiuscola, soprattutto per i bambini e gli adolescenti, con lo scopo d’indicare la dignità di ogni essere umano di vivere la propria vita come desidera, per godere di tutti i paesaggi che questo nostro straordinario Pianeta ci offre, pur nelle aporie dei suoi mali congeniti, non più favole indotte, ma guerre mondiali, che non riescono a risolvere giganteschi problemi umanitari derivati e che ancora incatenano nella grande mistificazione di massa, senza che si voglia, pur potendo, risolvere, a dispetto delle ingenti risorse che si utilizzano per armi e frivolezze varie, vale a dire, quel che continua a deridere l’ultimo brandello d’intelligenza umana. Siamo pianeti che si muovono in uno spazio sconfinato, chiusi nei limiti delle nostre percezioni e quando riusciamo a vedere qualcosa, al di là del nostro naso, veniamo colti da vertigini, perché… penetrare, immergersi e “abitare” con la più profonda sensibilità “all’interno” delle persone, della natura, degli animali, degli oggetti; vederli “dal di dentro”, ricrearli, farli propri, anzi: essere parte di loro, della totalità, non può non modificare gli infiniti Io che costituiscono la Moltitudine, il nostro stesso Io Medesimo. Ma la sfida più grande è quella d’abitare tutti questi universi e riuscire esprimerli in un linguaggio capace d’attrarre gli Altri, lontano da noi anni siderali. Eppure, per tutti coloro che viaggiano su simili astronavi di luci e suoni, di colori e musica, di arte e bontà, anche se procedono in dimensioni diverse o parallele, non sarà difficile incontrarsi, come, per me, non è stato per nulla arduo, immergermi nei dipinti di Monet, con il quale ho dialogato, addentrandomi in lunghe discussioni, nelle quali ho invitato tutti gli altri che sono riuscito a conoscere, mai separando filosofi da pittori, né poeti da scienziati, senza gerarchie preferenziali, poiché anche nel singolo secondo, vi scorgo il più grande cambiamento, necessario alla meravigliosa trasformazione di un’intera vita.

 

 

 

 

 

                                                      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PAESAGGI DELL’IO DELL’ES NON DEL SUPER IO

 

© FRANCESCO S. MOSCA

 

2013

 

 

 

 



[1]              Proseguita anche contemporaneamente graficamente con matite e chine.

[2]           In seguito si scoprirà che il “personale” è anche universale, soprattutto grazie alla psicoanalisi e alla neuroestetica.

 

[3]               In storia dell’arte sembra un dettaglio insignificante, ma si rivelerà agli inizi del Novecento fondamentale per la nascita dell’Astrattismo con Kandinskij, fino ad acquisire legittimità artistica negli anni Cinquanta e divenire addirittura “classica”, come un tempo s’intendeva, quella antica greca, romana e dell’Ottocento.

[4]              Se poi, l’io-pittorico, viene seminato per mezzo di colori, in profondità, con intuito, scienza, filosofia, poesia, etica, oppure no, è giudizio riservato ai critici, agli editori, ai funzionari delle istituzioni e ai detentori del potere in generale, il cui lavoro è stato ben analizzato da Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’Illuminismo, nel 1944, soprattutto nel capitolo: L’industria culturale, che reca significamente il sottotitolo: Quando l’illuminismo diventa mistificazione di massa.

[5]              Come ciò sia possibile è stato analizzato in Introduzione al pensiero obliquo, scritto nel 2002, autopubblicato nel 2013.        

 

[6]              Pierre Rouvè, Turner, p. 33, Milano, 1989. D’ora in poi si citerà il libro di P. Rouvè, solo con le iniziali.

[7]              La critica del super-io dovrebbe diventare la critica di quella società che lo produce; se essa ammutolisce davanti a questa, allora ci si arrende alla norma sociale dominante. Raccomandare il super-io per la sua inalienabilità o utilità sociale, mentre in quanto meccanismo coatto non gli spetta quella validità oggettiva che esso pretende nel contesto effettuale della motivazione psicologica, ripete e consolida all’interno della psicologia quelle irrazionalità che si vantava di «eliminare». T. W. Adorno, Dialettica negativa, 245, Milano, 2004.

 

[8]              Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito, p. 34, Milano, 2006.

[9] Estetica della Luce, 2009, inedito.

[10]           Pierre Rouve, Turner, op. cit. p. 14. Da questo punto, si utilizzeranno solo le iniziali e le pagine corrispondenti.

[11]              Precedentemente esposto, a proposito della teoria quantistica, la quale, certamente non poteva essere conosciuta da Turner, ma egli l’ ha anticipato pittoricamente e, fisicamente intuita!

[12]            Per l’occasione compose una poesia per illustrare maggiormente il dipinto e che possiamo intitolare La libertà in catene, giacché tratta dell’eroe gallese, Owen Docs,  morto dopo una lunga prigionia, personaggio mitico di cui non si conosce nulla, scelto da Turner proprio per questo motivo, perché emblematico del problema dell’attribuzione di una identità, alla fine non rilevante: Com’è strano il silenzio del mondo rimasto vuoto/dove la natura innalza le montagne al cielo/in maestosa solitudine/Guardate la torre dove il povero Owen/a lungo imprigionato/ha sospirato e desiderato la libertà/ma invano.

[13]            E se ci fosse un modo per vedere attraverso infiniti occhi, conservando le visioni chiare e nitide?  Non sono forse le opere d’arte specchi senza fine di ciò che vediamo di più elevato? Francesco S. Mosca, Aforisma N.61.

 

[14]             Jaques Derrida su un simile procedimento fonderà la sua filosofia della decostruzione.

 

[15]             La coscienza intellettuale. Faccio sempre di nuovo la stessa esperienza e sempre di nuovo mi ribello ad essa: non voglio crederci, benché lo palpi con mano: manca ai più la coscienza intellettuale; anzi spesso ho avuto quasi l’impressione che se si esige una tale coscienza, si finisce per essere soli nelle più popolose città, come nel deserto. Friedrich Nietzsche, Idilli di Messina, in: La Gaia Scienza e scelta di frammenti postumi, 1881-1882, p. 39, Milano, 1971.

[16]             Pierre Rouve, Turner, p. 187, op. cit.

[17]             A. Breton, Manifesti del Surrealismo, Torino, 1966, p. 30, in I Campi magnetici, p. 7, Roma, 1977.

[18]             Citazioni da: Ludovico Geymonat, Storia della filosofia, V. III, pp. 37-42, Milano, 1979.

 

[19]             Edimburgo 13. 06. 1831-Cambridge 05. 11. 1874.

 

[20]              E. Lévinas, op. cit., p. 34.

[21]             Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, p. 80, Milano, 1980.

[22]             Il passaggio è così bello e merita d’essere riportato per intero: «[La scrittura del sogno] lavora certo con una massa di elementi codificati nel corso di una storia individuale o collettiva. Ma, nelle sue operazioni, nel suo lessico e nella sua sintassi, un residuo idiomatico, che deve portare tutto il peso dell’interpretazione, nella comunicazione tra inconsci, appare irriducibile. Il sognatore inventa la sua propria grammatica». Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, p. 270, Milano, 2010 (la traduzione citata in Filmcritica, è del 1971). Per correttezza aggiungo che l’Artista, art director, di una nota casa editrice, ha emesso il giudizio senza vedere i miei dipinti, ma solo le foto e nemmeno di ottima qualità.

[23]             La lingua che parla di se stessa.

[24]             M. Perniola, op. cit. p. 12.

[25]             In: J. Derrida, La scrittura e la differenza, cap. VII: Freud e la scena della scrittura, p. 291, op. cit. Miei i corsivi. Nell’opinione comune e dominante, il compromesso è considerato come un ripiego, una resa, quasi un disonore, poiché esalta il concetto del Tutto o Niente, della vittoria, del campione e dell’eroe, premiato alla fine della lotta, ma si guarda bene dal far capire che la gara, fin dall’inizio è truccata, e “vince” solo chi accetta le regole delle oligarchie e ad esse si sottomette, concetti espressi in Introduzione al pensiero obliquo, 2002-2013.

[26]             Carl GustavJung, Sogni, ricordi, riflessioni, p. 273, Milano, 1998.

[27]             C. G. Jung, Sogni, ricordi, riflessioni, op. cit. pp. 284-5

[28] Max Horkheimer – Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 49, Torino, 2010.

 

[29]             Perché rileggo sempre gli stessi libri, pur avendone, diversi ancora nel cellophane? Perché ho molte tele arrotolate da più di vent’anni?

 

[30]             Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Vallecchi, Firenze, 1947, p. 23, in Salvatore Lo Bue, Il Fiore Azzurro, FrancoAngeli, Milano, 2006, p. 37.

[31]             Arthur Schopenhauer, L’arte di essere felici, p. 77, Milano, 1977.

[32]             Considerazioni, che per me, sono di fondamentale importanza.

[33]             Vorrei che fosse chiaro un pensiero cui fa riferimento il discorso centrale della mia ricerca, e cioè il principio in base al quale non si possono spiegare i meccanismi della mente, se non si tiene presente la dinamica dell’inconscio, quella onirica e gli stati intermedi (o istanze, livelli, sistemi, circuiti, moduli, strutture, reti neuronali aperte/chiuse, e le impalcature che contribuiscono a formare il cervello, chiaramente senza correre il rischio di scambiare le impalcature per i prodotti stessi della mente, altrimenti si cade nell’errore di ritenere più importante il sostegno, necessario alla costruzione, che non l’edificio stesso). Stati che devono intendersi anche in senso temporale, in base alla crescita dell’organo cerebrale e quindi alla conseguente dilatazione spaziale, la quale non può non coinvolgere gli aspetti quantitativi e qualitativi. Di conseguenza avviene una continua modifica delle coordinate di una sempre nuova “geografia logica dei concetti mentali” (G. Ryle, 1971) che stimola una crescita dei concetti fantastici e un punto di incontro con le scienze matematiche, a cominciare dalla prospettiva rinascimentale, la cui parabola esponenziale arriva fino alle prospettive multiple di Escher e alla rappresentazione dello spazio iperbolico, libero dai limiti della gravitazione, dalla rigida, assoluta linearità verticale-orizzontale e permette la rappresentazione di una modularità spaziale progressiva e infinita.  Si veda Introduzione al pensiero obliquo, p. 105, autoprodotto con Gruppo Editoriale L’Espresso, Ilmiolibro.it.

[34]             Questi, ed altri testi, sono oggetto di studio per: Arte Scienza Etica, un lavoro per il momento congelato in una parentesi temporale, che prima o poi si aprirà in libro, spero, ricco di illustrazioni.

[35]             M. Perniola, L’estetica contemporanea, op. cit., p. 141.

[36]             Nel dipinto Il ponte la Diagonale dell’acqua taglia l’immagine in due parti simmetriche attraversate dal ponte, passaggio obbligato per accedere alle verità dell’arte, verità che possono essere scoperte interiormente come il più prezioso dei tesori e solo per intuito, non per logica. La Linea obliqua avvicina lo spazio, condensa i significati, introduce un elemento dinamico, porta in primo piano ciò che è trasversale e apparentemente non rilevante. Per questo la Diagonale può essere considerata come il simbolo stesso del Sogno. Simbolo che emerge in quasi tutte le mie opere come ne Il sogno di Mercurio (1997-1998), dove possiede il significato della sintesi poetica e della riunificazione di tutti i più alti valori dell’essere umano. È un paesaggio dell’anima, dove l’essenza della natura è racchiusa nei corpi, levigati come statue di carne, sensuali come le divinità dell’amore. La continuità dall’antico al moderno è tutta nella Diagonale[36] della gamba di Venere, la quale prosegue idealmente e fisicamente in quella di Mercurio, come una linea Ideale della trasmissione dei valori dal piano storico-concettuale a quello, della vita, della materialità, dell’agire, dell’esistenza fisica nella felicità sensibile ed emozionale dell’estasi. Inserto: Paesaggi dell’anima, p. 4, 2000. Per la visione dei dipinti, si rimanda al mio sito: Francesco Mosca. Jimdo. Com.

 

                Le divergenze che hanno caratterizzato lo sviluppo dell’arte moderna, sintetizzato dallo scontro Chagall-Malevic, si ripresentano nel rapporto Mondrian- Van Doesburg, dove compare quel sottile veleno della linea obliqua, causa della loro rottura  e la fine dell’esperienza De Stijl, una tra le più importanti dell’arte contemporanea. Scritti sull’arte, p. 39, 2000, autoprodotto.

[37]        Le citazioni sono tratte da un articolo pubblicato su il Venerdì di Repubblica, nel settembre del 2012, dal titolo: Come è bello il mio cervello.

 

[38]          M. Perniola, p. 235, op. cit.

[39]        M. Perniola, pp. 235-6, op. cit.

 

[40]         Giulio Maira, art. cit.

[41]      Joe Dante ha realizzato un rifacimento dal titolo: Salto nel buio, 1987.

 

[42]      Giulio Maira, art. cit.

 

[43]             La visione sociale sarà ulteriormente corretta da K. Marx ed F. Engels, i quali ricondurranno le ideologie borghesi (sovrastrutture) nel loro autentico settore della politica (menzogna) e quindi dell’economia (verità).

[44]             È un altro motivo per il quale l’arte è stata condannata.

[45] Uso la maiuscola in segno di riconoscenza, poiché è a partire da questo breve articolo, scritto in occasione della mostra, che ho iniziato a prendere coscienza della sua enorme importanza, in seguito estesa nel volume: Introduzione al pensiero obliquo, (2002), purtroppo ancora inedito.

[46]Wassily Kandinsky Lo spirituale nell’arte, p.65, 1998, Milano.

[47] Jean Starobinski, L’occhio vivente, p. 285, Torino, 1975.

[48] Federico Faruffini (Sesto San Giovanni 18 agosto 1833- Perugia 15 dicembre 1869), morì suicida perché non riusciva a vivere di pittura. La sua storia l’ho in parte narrata, trasfigurandola nel romanzo Sulle acque scure dei Navigli (1997), inedito.

[49] Hegel, Scienza della logica, p. 71, Laterza, 1978.

[50] Argan, op. cit., p. 565.

[51]             Jean Chevalietr – Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, p. 43, Milano, 1999.

[52]             Lehman Brothers, 16 settembre 2008, Bank of Clark County, National Bank of Commerce- 16 gennaio 2009, solo per citarne alcune, ma sono centinaia, a cui si deve aggiungere l’indotto e le migliaia di altre imprese e industrie fatte fallire in tutto il mondo.

[53]             Max Horkheimer-Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, op. cit., pp. 49-50, Milano, 2000. Miei i corsivi. Si ricorda che il testo è stato composto in America nel 1944.